Capitolo 33. L'ospedale.

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Mi giravo e rigiravo in quel letto con le lenzuola candide di cotone e un copriletto grigio di lana pesante, che sembrava non riuscisse a scaldarmi neanche un po'.
Le mura bianche, immacolate erano spoglie come l'arredamento, povero e vecchio e quella stanza era fredda e buia, si gelava.
Il braccio femminile di quella clinica era più rigoroso a detta degli infermieri e dei pazienti che erano stati almeno una volta in quello degli uomini.
Non riuscivo ad immaginare quanto fosse squallido l'altro lato, dato che il luogo in cui mi trovavo era più desolato di qualsiasi altro posto, che io avessi mai visto in vita mia, più della topaia in cui vivevo.
Tranne per il guardino naturalmente, quello era fantastico, ricco di fiori ed alberi di ogni genere con panchine e tavoli tutt'intorno.
I pazienti in semilibertà ci passavano gran parte della giornata a leggere o a guardare nel vuoto.
A me non era ancora consentito uscire dalla mia stanza o meglio cella, con tanto di sbarre alle finestre e uno spioncino alla porta.
Erano giorni, che non facevo altro che dormire.
Mi avevano inghiottito di tranquillanti.
"È la prassi"  mi avevano detto, dovevo ambientarmi, calmarmi e restare buona per un po', senza ribellioni.
Per sostenere quella situazione dovevo drogarmi, tanto valeva la pena restare fuori, nel mio mondo.
Quando mi rifiutavo di ingerire le pasticche, due infermiere mi tenevano ferma con la forza e me le facevano ingoiare buttandomele direttamente in gola.
Altre volte ero così indiavolata che non potevano fare altro che sedarmi con un'iniezione, sparata bruscamente in vena.
E così mi ritrovavo stesa sul quel letto scomodo e mi risvegliavo quando era buio intontita e spaesata.
Avrei potuto anche accettare di dormire, ma ogni volta che chiudevo gli occhi mi tormentavo nei sogni, gli incubi più brutti di tutta la mia vita.
Ogni volta era il ripetersi di una scena raccapricciante: io in una pozza di sangue con Billy tra le braccia morto e poi Sam, il suo volto mi tormentava.
Assistevo ripetutamente a scene terribili che si ripetevano nella mia mente.
Mi giravo e mi rigiravo e quando aprivo gli occhi mi ritrovavo grondante di sudore.
Ai piedi del letto c'era sempre un uomo, il mio medico.
Un omone biondo mi tranquillizzava sempre quando urlavo dalla disperazione e cercavo di alzarmi senza riuscirci.
Le mie grida riempivano il silenzio di queu corridoi, urlavo così forte da restare esausta.
Sentivo la testa pesante e gli arti immobilizzati.
Una volta avevo rischiato di cadere a terra e di restarci tutta la notte se quel omone grosso ed alto non mi avesse acchiappato in tempo.
Le sue parole erano sempre le stesse, "tranquilla è tutto ok, ci sono io qui".
Mi abbandonavo in quelle braccia possenti e non mi lasciava andare fin quando non mi fossi addormentata di nuovo, lui odiava sedarmi e lo faceva solo se necessario.
Ricordo il suo odore inebriante, sapeva di menta e di fiori appena colti.
Era dolce come una mattina di primavera e freddo come il mare in inverno.
Non riuscivo mai a guardare il suo viso era sempre buio quando mi svegliavo.
Qualcosa mi diceva che aveva due occhi profondi neri o castani, non lo sapevo o forse sì.
Non riuscivo a ricordare l'ultima volta che avevo visto la luce, anche di giorno tra quelle mura sembrava notte.
Avrei meritato di scontare la mia pena in galera, avrei preferito morirci in carcere piuttosto che restare in quel posto.
La mia era stata una pena ingiusta, non ero pazza o almeno credevo di non esserlo.
Mi trovavo tra i pazzi, anzi ancora peggio tra i pazzi che avevano commesso crimini e il solo pensiero mi faceva rabbrividire.
Sapevo che non sarei riuscita a sopportare tutto quello, sarei impazzita o peggio morta.
Ero lontana anni luce dalla mia vecchia vita dalla mia unica ragione di esistenza, dal mio piccolo Billy.

Ogni rumore era ovattato quella mattina o era notte non ricordo.
Non riuscivo più a distinguerli.
Un'infermiera mi alzò di peso e mi mise seduta sul letto, schiusi gli occhi lentamente. Quella luce fioca della lampadina appesa al soffitto mi incendiava le pupille.
Non riuscivo neppure a stare seduta, così un'altra infermiera più giovane mi teneva ferma.
Parlavano di me tra di loro, non riuscivo a captare bene ciò che dicevano.
L'unica cosa che sapevo é che ero da quattro giorni al reparto 1, ovvero quello dei malati di mente più gravi un passaggio momentaneo in isolamento per testare le mie condizioni.
Dopo sarei passata al reparto 3, con gente con problemi di dipendenze da droghe, alcool, depressione ed isteria.
Meglio di quello in cui mi trovavo, decisamente.
<Allora Leyla, adesso devi cercare di alzarti e parlare.>
In effetti era da quando ero arrivata in stato di shock che non proferivo parola. Sembrava che non ricordassi neppure come si pronunciasse il mio nome.
Jerry mi aveva lasciato promettendomi che sarebbe venuto presto, ma non avevo più avuto sue notizie o non gli consentivano di vedermi.
Fatto sta che la mia mente si sentiva lontano da tutto e da tutti.
Il dolore che stavo provando non era comparabile a nulla e lì dentro mi stavano abbandonando a quella sorte malvagia e crudele.
<Leyla, avanti fatti forza ed alzati.>
M'incoraggiò l'infermiera più anziana che con l'aiuto della sua collega, probabilmente una tirocinante, mi presero con forza reggendomi per le braccia.
Indurii le gambe e cercai di mantenermi in equilibrio, ma i miei muscoli sembravano gelatina.
Così una di loro mi lasciò cadere sul letto e mi fece stendere di nuovo dolcemente.
Si erano arrese, chiamarono il medico, che sarebbe dovuto venire comunque per la prima visita psichiatrica.
Chiusi gli occhi e dopo un po' mi addormentai.

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