VENTISEI

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Damiano aveva paura. Era da quando era stato colpito e inseguito giù per le scale dagli uomini dell'assistenza che non provava un così intenso terrore di morire.

Era stato portato giù e fuori dalla rimessa a spintoni, non vedeva nulla a causa del cappuccio nero e non aveva idea di chi fossero quegli uomini armati e mascherati. Di certo non scherzavano: li aveva visti uccidere la signorina Necchi ed era piuttosto sicuro che il dottor Ruperti avesse fatto la stessa fine. Non lo avevano ancora ucciso, ma non era affatto detto che non decidessero di farlo in seguito. Evidentemente prima volevano qualcosa.

Lo avevano fatto salire su un mezzo che doveva essere piuttosto grande, perché aveva dovuto appoggiare i piedi su due scalini per raggiungerei il sedile, e ora stavano viaggiando, fortunatamente lontano dalla puzza di maiale.

Due uomini erano seduti ai due lati e tacevano. Uno dei due faceva un curioso rumore respirando, come un rantolo o un grugnito. Una radio gracchiava da un qualche punto davanti a lui.

"Chi siete? Dove mi state portando?" provò a chiedere, ma rimediò solo una gomitata nel costato dal tizio grugnente alla sua destra.

Il viaggio durò un bel po', anche se Damiano non sarebbe stato in grado di dire quanto mentre il suo tempo soggettivo veniva dilatato a dismisura dall'ansia, poi il mezzo si arrestò improvvisamente con un gran fischiare di freni. Gli uomini scesero e quello alla sua destra lo strattonò fino a che non mise piede a terra, quindi lo spinse per un bel tratto piantandogli qualcosa di duro nella schiena.

"Potete dirmi qualcosa? Io sono disposto a collaborare" disse speranzoso, ma gli arrivò un colpo al polpaccio che lo costrinse a cadere sulle ginocchia.

Di nuovo fu strattonato affinché si rimettesse in piedi e continuasse a camminare. Arrivarono in una stanza chiusa e Damiano capì dalla spinta verso l'alto che si trattava di un ascensore. La salita continuò per altri dieci minuti almeno, poi la cosa dura puntata alla schiena, che con ogni probabilità era una canna di fucile, lo sospinse per un altro lungo tratto. Alla fine entrò in un posto che puzzava di urina e fu scaraventato a terra. La porta fece un rumore metallico nel chiudersi.

Si ritrovò sdraiato su un fianco, con le mani legate dietro la schiena e il cappuccio ancora ben calzato. Cercò di alzarsi, ma senza poter contare sulle mani, l'unica soluzione che trovò fu puntare la testa a terra e cercare di sollevare il sedere. La cosa gli costò parecchia fatica, ma ce la fece. Da inginocchiato appoggiò il sedere sui talloni, sollevò il capo e quindi si tirò finalmente in piedi.

Cercò di farsi un'idea dell'ambiente in cui era. Fece uno, due, tre passi in avanti e incontrò un muro, quindi fece due passi di lato fino ad toccarne un altro.

'Tre passi per tre passi, verosimilmente una cella di tre metri per tre' pensò.

Per quanto di sforzasse di riconoscere oggetti o irregolarità stando di schiena e sfiorando con le mani, i muri erano semplicemente lisci e freddi, interrotti solo da una porta metallica a filo con le pareti. A terra non c'era nulla, nessun mobile, letto o sgabello. Il pavimento era in leggerissima pendenza verso il centro e verso un buco in cui la punta della sua scarpa entrava solo parzialmente.

Provò a dimenare la testa, a strofinarla contro le spalle e contro le pareti per cercare di far cadere il cappuccio, ma scoprì che doveva avere un elastico che lo faceva inesorabilmente scendere sotto la mandibola ogni volta che riusciva a sollevarne un bordo.
Esauriti tutti i tentativi di migliorare la sua situazione, capì che non c'era nulla da fare, doveva solo attendere l'arrivo dei suoi carcerieri.

Appoggiò la schiena al muro e piegò le gambe per mettersi a sedere. Cercò di trovare una posizione accettabile, ma le braccia dietro la schiena gli impedivano di appoggiarsi comodamente. Si sistemò in qualche modo, seduto di traverso con una spalla appoggiata al muro e le braccia un po' piegate dall'altro lato. Non era il massimo, ma così poteva aspettare.

E dovette aspettare a lungo. Nessuno si fece vivo per un tempo apparentemente interminabile durante il quale Damiano non aveva neppure la forza di pensare, o meglio lo trovava inutile. Non aveva alcun elemento su cui ragionare. Non sapeva dov'era, non aveva idea di chi fossero quelli che lo tenevano in ostaggio. Era semplicemente in balia di qualcuno che voleva qualcosa da lui.

Mentre quasi si stava appisolando nella sua scomoda posizione, un rumore ridestò la sua attenzione. La porta si aprì e dei passi pesanti avanzarono fino a un metro da lui. Dovevano essere almeno due persone. Una si era posizionata alla sua destra, l'altra a sinistra e rimanevano in piedi e in silenzio.  Damiano pensò per un attimo di rivolgere loro la parola, ma poi percepì quel caratteristico rantolo nel respiro dell'uomo alla sua destra e il ricordo della gomitata e del colpo alla gamba lo fecero desistere.

Se non parlavano, se non gli dicevano nulla, questo voleva dire che probabilmente erano solo degli sgherri, delle guardie del corpo senza importanza, mandati dentro la cella a protezione di qualcuno che doveva ancora arrivare.

Di nuovo passò del tempo senza che nulla succedesse, poi dalla porta aperta iniziò a udire un passo, inizialmente lieve e lontano, poi sempre più vicino fino a che lo sentì entrare nella stanza e fermarsi davanti a lui.

"Sarebbe questo qui l'uomo chiave?" chiese l'uomo, forse rivolto ai due sgherri silenziosi "Quelli di Livello Ombra sono dei poveri cretini senza speranza. Mettetelo in piedi!"

"Subito, capo."

Damiano raggelò.

'Quella voce... ' pensò.

I due presero Damiano per le ascelle e lo sollevarono con facilità.

"Che aspettate? Toglietegli il cappuccio" continuò il tizio che gli stava di fronte.

"Certo, capo, mi perdoni."

L'uomo alla sinistra di Damiano gli si avvicinò e sciolse l'elastico che teneva fisso il cappuccio. Damiano conosceva perfettamente quella voce e l'avrebbe riconosciuta ovunque. Di colpo i pochi elementi che aveva per capire dov'era e chi lo aveva catturato andarono a posto. Tutto acquistò improvvisamente un senso, ma questo lo fece sprofondare nella più cupa disperazione.

'Se lui è qui, per me è finita' pensò Damiano mentre il cappuccio veniva strappato bruscamente dalla sua testa.

'Se lui è qui, per me è finita' pensò Damiano mentre il cappuccio veniva strappato bruscamente dalla sua testa

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Realtà virtuale - Il viaggio di DamianoWhere stories live. Discover now