Capitolo Uno

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Julian

Camminavo per le strade di Atlanta e alzavo di tanto in tanto il viso al sole, bello e caldo. Mi ero sorpreso nel trovare quel clima così piacevole una volta uscito dall'ospedale; la mia città non era famosa per il bel tempo: il più delle volte, infatti, pioveva a dirotto. Ero reduce dalle ultime ore che avevo trascorso in compagnia di un'ennesima manciata di cadaveri. Il solo fatto che non fossero dei gran chiacchieroni non mi aiutava per niente a restare sveglio; ricordavo i tempi in cui avevo dovuto sgobbare prima di arrivare a essere dov'ero, ottenendo una posizione di rilievo in quello che adesso era il mio reparto.

Anche quella notte avevo coperto il turno di uno dei miei colleghi che, a causa di una sventura, si era dovuto assentare per un'intera settimana, dando del filo da torcere a chi si era ritrovato a sostituirlo, me per primo. Avevo bevuto tanti di quei caffè che ormai la mia bocca impastata non avrebbe saputo più riconoscere alcun sapore. Tuttavia, nell'intento di poter fare colazione - o cena, visti gli orari di quei giorni - mi incamminai verso il bar dove sapevo che avrei trovato Felicity, sempre pronta a farmi dimenticare di aver passato l'ennesima nottata in bianco da solo.

Entrai, mi guardai intorno e squadrai quelle persone che si erano appena alzate dal letto per andare a far colazione in quel posto. Al contrario, io stavo tentando di ottenere un ultimo pasto prima di rincasare e tornarmene a dormire, con la voglia matta di rimettermi tra le lenzuola e porre fine a quella settimana infernale. Cercai Felicity con lo sguardo e andai verso di lei non appena la vidi, pronto a far notare la mia presenza nel locale. Ero cosciente di quanto le facesse piacere che passassi di lì prima di andare a casa e, di volta in volta, come in quell'ultima settimana, continuavo a farlo in modo da tener fede a quel nostro rituale.

Non feci in tempo a salutarla che, con il suo solito fare dinamico e caotico, mi presentò una donna, sicuramente a me sconosciuta.

«Ciao Evie.» La salutai con aria un po' confusa e allungai una mano verso di lei come a voler procedere in quelle presentazioni. Sorrisi seppur mi stessi chiedendo cosa l'avesse spinta a farmela conoscere, visto che ero appena arrivato e mi sentivo decisamente intontito da quella nottata.

«Io devo sbrigare un attimo una faccenda, voi due tenetevi pure compagnia, arrivo tra poco.» Dichiarò Felicity, servendomi inaspettatamente una colazione che non avevo ancora ordinato, con una velocità inumana. Seguii a stento le sue parole quando in un attimo andò via, lasciandomi solo con quella ragazza che non conoscevo affatto.

Nel tentativo di evitare l'imbarazzo che altrimenti avremmo condiviso, provai a dire qualcosa per metterla a suo agio: «Ti ha presa in ostaggio o sei qui di tua spontanea volontà? Potrei aiutarti a scappare, giuro che farò finta di niente.» Ironizzai sui modi sempre troppo espansivi e coinvolgenti della mia fidanzata.

«Entrambe le cose, credo.» Rise per poi continuare a dire, punzecchiandomi: «E poi ammettilo, probabilmente sei tu che vorresti filare via, forse un letto farebbe comodo. E no, non l'ho capito perché hai troppe occhiaie, è stata Felicity a dirmi che hai appena finito di lavorare. Immagino che tu sia stanco.»

Risi di conseguenza e scossi il capo; alzai per qualche istante lo sguardo sul suo viso e mi soffermai sulla piega delle sue labbra e sui suoi occhi di un verde luminoso.

«Già. È stata una lunga notte; anzi, sono state sette lunghe notti, ma per fortuna sono finite. Adesso non mi resta che festeggiare prima di andare in letargo.» Mi stropicciai il viso con una mano, certo di non avere proprio un bell'aspetto visto che ero reduce da quella settimana che aveva sconvolto il mio ciclo vitale.

«Che lavoro fai? Ti capita spesso di fare le notti? Io penso che morirei. Mi viene da sbadigliare al solo pensiero.» Mi chiese con aria curiosa mentre mi decidevo ad addentare la mia colazione, consumando qualche morso e rispondendole subito dopo: «Sono un medico legale. Lavoro nell'ospedale qui vicino. Non scendo nei dettagli visto che ciò che faccio non è esattamente un'ottima materia di conversazione, soprattutto a quest'ora. Diciamo solo che lavoro nei piani bassi, molto bassi.» Feci spallucce e mostrai un sorriso ironico, certo che non avrebbe fatto fatica a comprendere ciò che celavano le mie parole.

«Credo di aver capito. Dev'essere un lavoro... Interessante. In realtà non so trovare un aggettivo adatto.» Rise e lo feci anche io, come a voler sdrammatizzare quella mia occupazione che, a molti, avrebbe probabilmente fatto venire il voltastomaco.

«E tu invece? Di cosa ti occupi?» Chiesi dopo aver stemperato quella piacevole risata, cercando con interesse una risposta nei suoi occhi, senza immaginare che avrei dovuto accoglierla con estrema sorpresa considerato che, con fare piuttosto tranquillo, asserì: «Sono un'investigatrice privata.»

Quello che non sai di meWhere stories live. Discover now