Il coraggio di restare

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-... Non credi di aver un tantino esagerato?-borbottò Lestrade a Sherlock, rivolgendogli un'occhiata severa ma al tempo stesso affettuosa, mentre percorrevano insieme il corridoio della base, una volta usciti dalla sala istruzioni.
Il contrabbandiere si strinse nelle spalle con indifferenza.
-Se Anderson imparasse ad usare quel poco di cervello che ha prima di aprire la bocca, io non mi sentirei obbligato a sottolineare la sua stupidità. Speravo che, dopo tutto questo tempo, fosse un po' migliorato. Ma a quanto pare era una speranza vana.
Il generale, suo malgrado, emise una risatina.
-Forse... potresti restare qui, e infettarlo con il tuo genio. E anche tutti gli altri. Anderson non sarà sicuramente l'unico...-commentò poi, in tono forzatamente ironico e indifferente.
Il corvino si voltò a guardarlo, sollevando poi un sopracciglio.
-... È il tentativo più pietoso che tu abbia mai fatto.
-Ne sono consapevole. Ma valeva la pena tentare-sbuffò il generale, passandosi una mano nei capelli brizzolati, un po' imbarazzato, e stringendogli poi la spalla con un breve sorriso.-Se usciremo vivi da questa storia, cerca di farti vivo più spesso. Magari ci facciamo una bella bevuta da Angelo. Offro io.
Sherlock rispose all'invito con un mezzo sorriso poco convinto. Erano ormai arrivati all'imbocco di un corridoio, dove le loro strade si separavano. Proprio come nella vita.
Avvertì uno strano senso di tristezza, a quel pensiero: ma si riscosse all'istante. Era meglio così.
Lui stava meglio da solo.
E anche gli altri sarebbero stati meglio, senza lui intorno: a volte si chiedeva come Lestrade avesse potuto sopportarlo in tutti gli anni in cui si erano frequentati.
-Abbi cura di te-gli raccomandò il generale, con un ultimo sorriso e un cenno di saluto.
-Come sempre. Anche tu, Greg-non potè fare a meno di aggiungere lui.
Lestrade, che si era voltato e aveva già fatto alcuni passi in direzione della sala controllo, si girò sbalordito, un sorriso incredulo e divertito sul volto.
-Allora ogni tanto te lo ricordi il mio nome, eh!-esclamò, ridacchiando.
Il corvino roteò gli occhi, facendogli poi un ultimo cenno di saluto col capo. Tirò poi sugli zigomi il bavero della giacca, per non mostrare il leggero sorriso, ma carico di malinconia, che aveva sulle labbra.

Si era allontanato appena di due passi, quando una voce nota, poco alle sue spalle, lo chiamò.
-Signor Holmes...
-Mi chiami pure Sherlock e mi dia del tu, senatrice-rispose, voltandosi, con nella voce un pizzico di ironia, che portò la ragazza a sorridere, ricordando quella sorta di litigio avvenuto nello scarico rifiuti.
-D'accordo... Sherlock-replicò lei, nel medesimo tono.-Volevo solo ringraziar-... ti, per avermi salvato la vita.
-Dovrebbe ringraziare John Watson-ribattè il contrabbandiere.-È stato lui ad avere l'idea.
-Be', ma hai anche recuperato i piani...
-Solo perché mio fratello mi ci ha costretto.
-Non puoi accettare il mio ringraziamento e basta, invece di continuare a puntualizzare??-esclamò Molly a quel punto, un filo esasperata.
-Sono spiacente. Ma è nella mia natura-replicò Sherlock con un mezzo sorriso, che la senatrice non riuscì a non ricambiare, per quanti sforzi facesse: quel contrabbandiere era
sicuramente arrogante,
presuntuoso, irritante... ma era anche dotato di un fascino fuori dal comune.
-È vero che... te ne stai andando?-gli domandò poi, di nuovo seria, e forse un po' dispiaciuta: non poteva negare di essersi sentita attratta fin dall'inizio, da quell'uomo così misterioso.
-Sì. Ho svolto il compito che mi era stato assegnato. Ora devo tornare ai miei affari-replicò lui, forse in un tono eccessivamente duro, fissandola con quei suoi occhi di ghiaccio.
-Perchè non resti qui?-gli domandò finalmente la senatrice, ma senza alcuna malizia.-Ho visto cosa sei capace di fare. E sei un ottimo pilota. Potresti essere davvero di grande aiuto alla causa Ribelle.
-La ringrazio per aver sottolineato le mie capacità. Ma non posso restare. Non voglio restare- si corresse Sherlock immediatamente.-Ho altre faccende di cui occuparmi. Questo non è il mio posto.
-E allora qual è?

Quella domanda a bruciapelo della senatrice lasciò il contrabbandiere spiazzato per qualche istante: perché lui non aveva più per davvero un suo posto. Un posto da poter chiamare... casa.
Lo aveva avuto, un tempo.
"Casa" significava radici, affetti, legami... "casa" era dove aveva vissuto coi genitori... "casa" era stato il suo Maestro...
Scosse la testa, innervosito: non aveva intenzione di rispolverare quei ricordi; nonostante avesse tentato con tutto sé stesso di nasconderli nel luogo più oscuro e lontano della sua mente, a volte essi riemergevano con prepotenza, portando con loro tutto quel dolore. E faceva male esattamente come il primo giorno.
Per questo, da allora, preferiva spostarsi di luogo in luogo, senza mai fermarsi troppo a lungo nello stesso posto: niente legami, niente obblighi, niente sofferenza.
Era meglio così.
-Non ne ho uno in particolare-rispose infine, cercando di non far trapelare la tristezza che, nonostante tutti i suoi sforzi, sentiva.-Non amo stare a lungo nello stesso posto. Mi piace la mia libertà.
Sherlock non sapeva nemmeno perché avesse voluto aggiungere quell'ultima frase: pareva quasi che sentisse il bisogno di dare una spiegazione alla donna che aveva di fronte. E questo era assurdo.
Lui non doveva spiegazioni a nessuno.
Ma Molly non disse nulla: si limitó solo a fissarlo con quei suoi occhi nocciola, che sembravano andare oltre lui; come se potesse leggere dentro la sua stessa anima.
-Ora deve scusarmi, senatrice, ma mio fratello mi sta aspettando. È stato un piacere-fece bruscamente, stufo di stare ancora sotto quello sguardo così dolce e al tempo stesso troppo penetrante della sua interlocutrice.
Ma prima che potesse voltarsi, Molly lo trattenne delicatamente per un braccio.
-Signor Hol... Sherlock. Aspetta. Vorrei prima raccontarti ancora una cosa.
Il corvino esitó, diffidente. Ma poi fece un breve cenno d'assenso.
- Tanto tempo fa, mia madre mi disse una frase che non ho mai dimenticato.-Le sfuggì un sospiro.-Me la diceva soprattutto quando mi lamentavo e volevo andarmene, fuggire dai miei obblighi di senatrice, essere... libera.
Sul suo volto si fece strada un leggero sorriso malinconico: Sherlock capì che stava pensando alla sua famiglia, che aveva appena perso, e scoprì di provare una forte pena, per lei. Per la prima volta nella sua vita, dopo tanto tempo, desiderava confortare qualcuno, tanto che dovette resistere all'improvviso impulso di tendere la mano e stringerle la spalla.
Ma la senatrice si riprese quasi subito, fissandolo negli occhi mentre proseguiva il discorso. Una volta di più ammirò la forza di quella donna, apparentemente fragile ma dotata di una gran forza d'animo.
-Mi diceva così: "A volte essere liberi non vuol dire scegliere di andarsene. A volte significa scegliere di rimanere."

Beyond the galaxyWhere stories live. Discover now