Capitolo II - Seconda parte.

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My dearest Momoko,
inizio questa lettera chiedendoti scusa. Semplicemente, perdonami.
Mi dispiace.
Ma partiamo dal principio. C'è una cosa, Momo, che non ti ho detto. E mi dispiace anche per questo. Vedi, per me non è facile parlarne... Il fatto è questo: mio fratello, Hisayuki, è morto, due settimane fa.
Te ne parlavo spesso... dei suoi viaggi in giro per l'Europa, della nuova ragazza scandinava con la quale divideva l'appartamento in Svezia, dei suoi studi all'università di Stoccolma. Avrebbe dovuto fare ritorno ai primi di dicembre, per la pausa invernale.
Incidente stradale, ci hanno detto. Dal giorno della notizia mia madre non fa che piangere, chiusa in camera sua. Ha perso molto peso. Mio padre dal canto suo cerca di essere forte per tutti. Piange in silenzio, a volte, chiuso nel bagno. Non è più lo stesso, temo che non lo sarà mai più. Vedo che nei suoi occhi quella lucentezza, quella fiamma viva che brillava, si è spenta, per sempre. Sai, Momoko, io, quella fiamma, nei momenti bui, l'ho vista vacillare tante volte; affievolirsi; tremare; ma non l'avevo mai vista spenta. E credo che non sarà mai più in grado di accendersi. Alla piccola Narumi non l'abbiamo ancora detto. Ogni giorno fa sempre più domande e nascondere la verità diventa sempre più difficile. Le abbiamo detto che Hisayuki ha dovuto prolungare il suo soggiorno in Europa per dare alcuni esami, dal momento che vuole finire gli studi al più presto. Studiava medicina. Un giorno avrebbe voluto essere un grande neurologo, era il suo sogno.
Strano, il destino, non pensi, Momoko? Una persona spende tutte le sue energie per realizzare i suoi sogni, le sue ambizioni, per organizzarsi il futuro in modo che sia il più roseo possibile e proprio quando sembra che la vita che ha sempre sognato è a lì a pochi passi, ecco che, in un attimo, tutto svanisce.
Ci hanno detto che l'incidente stradale è stato causato da mio fratello. Voleva suicidarsi, dicono. Hanna, la sua ragazza, è venuta qui con il primo volo, sconvolta. Ci ha raccontato che quella notte Hisayuki era impazzito: diceva che voleva lasciare tutto, tutti. Voleva abbandonare gli studi, la Svezia, l'Europa. Non voleva nemmeno tornare qui a Tokyo. Voleva solo andarsene, sparire. Ancora non sa spiegarsi il motivo di quello sfogo.
Hanna ci ha raccontato che quella sera avevano litigato e lei se ne era andata. Aveva dormito da un'amica che abitava poco distante da loro. Ha detto che però l'aveva chiamato, tante volte, che non rispondeva. Quando era tornata all'appartamento, non l'aveva trovato. Ci ha raccontato che era tutto in uno strano ordine: le stoviglie lavate e sistemate nella credenza, il letto rifatto, la sua scrivania con i libri impilati, le penne nel portamatite, i fogli di appunti sistemati accuratamente nella cartellina di plastica trasparente. Un ordine fastidioso e angosciante. Aveva lasciato un biglietto sul tavolo da pranzo, un fogliaccio strappato di fretta da un qualche quaderno. Un "Ciao" lasciato lì per caso, distratto, e nient'altro. Ci ha detto che era stata assalita dalla paura che fosse partito davvero, che avesse abbandonato tutti. Dalla paura, dalla rabbia, dal rimorso di non essere rimasta lì con lui. Ha pianto per tutta la mattinata, ci ha raccontato.
Poi la notizia: l'avevano trovato morto in un burrone. Aveva guidato, quella notte, da ubriaco e la macchina era andata fuori strada.
Quando è arrivata qui, lo stato d'animo di Hanna era tale che non saprei descriverlo con le parole; non era distrutta. Lei non esisteva più. Annientata. Ci ha raccontato questo tra le lacrime e i singhiozzi, le scuse per non essere rimasta lì, per non averlo salvato. Nessuno di noi riesce ancora a spiegarsene la ragione. È come se stessimo tutti vivendo in un grande incubo in attesa di svegliarci. È tutto così irreale.
Ma ancora, perdonami, Momoko. La verità è questa: sono un codardo. Perdonami se non sono lì a dirti queste parole, se preferisco affidarle alla carta.
Perdonami anche per questo: ho deciso di lasciarti.
Sento che intorno a me c'è solo il vuoto. È tutto vuoto e insignificante. Dal giorno della notizia è come se fossi bloccato in un limbo eterno. Non c'è niente, intorno a me. È tutto nero. Come se fossi stato risucchiato da un buco nero. L'unica cosa che riesco a sentire in questo momento è un sentimento cui non so attribuire un nome; forse rimorso per non esserci stato, forse tristezza. Forse rabbia nei confronti di mio fratello per il gesto che suppongono che abbia commesso, senso di colpa. Forse tutto questo insieme. Sono confuso, Momoko. Tremendamente confuso e sconvolto. Non credo che riuscirò a darmi pace finché non avrò capito il significato della sua morte, se ce n'è uno. In questo momento tutto appare così ingiusto e sbagliato. La realtà che mi circonda non è nient'altro che un'enorme massa grigia e senza forma che svanisce lentamente... rimane solo quel senso di vuoto che ti divora fin dentro le ossa.
Voglio che tu ne stia fuori, Momoko. Non ti meriti tutto questo dolore. Non meriti che l'ombra che mi porto dietro s'insinui anche dentro di te. Tu hai un'anima splendente, Momoko. Uno spirito di uno splendore, di un candore di una lucentezza travolgente.
Io non voglio che si spenga, non posso permetterlo. Non ne ho il diritto, non devo. Vorrei solo poter essere in grado di tirar fuori da te quella luce, Momo, quella luce che vive dentro di te. Ma non posso, non ne sono in grado, non ora. Non ho fatto altro che affievolirla in tutto questo tempo, che farla vacillare. Non voglio che tu soffra ancora. Ho solo bisogno di un po' di tempo, solo con me stesso, per capire, per mettere insieme quei brandelli che rimangono di me.
Dio, avrei voluto conoscerti prima... chissà come sarebbero ora le cose.
Perdonami, infine, perché voglio chiederti un'ultima cosa, Momoko: non dimenticarti mai di me. Tornerò, questa è una promessa. Ho bisogno di sapere che non mi dimenticherai, che sarai ancora lì quando tornerò. Per favore.
Scusa.
Tuo, Eiji.

Una lacrima bagnò il foglio.
In un attimo, così come quella serata di novembre, mi sentii anch'io inverno. Fredda, buia, spenta, come la luce pallida del sole di dicembre che filtra attraverso le nuvole.
Non sapevo dire con certezza quali fossero i sentimenti che in quel momento mi dominavano. Era come se le emozioni si ammassassero dentro di me le une sulle altre in un vorticare frenetico che mi lacerava l'anima con violenza sprezzante, come uno tsunami che, cieco e feroce, travolge, spezza, annega qualsiasi cosa venga a trovarsi alla mercé della sua folle collera. Mi sentivo come una piccola barca a vela in balìa di un maremoto.
Afferrai velocemente la mia giacca e uscii di corsa dalla stanza respirando a fatica. Salii in fretta le scale che portavano a una piccola serra all'ultimo piano dell'edificio. Entrai e mi sedetti su una panchina malconcia, dalla vernice scrostata, mentre fissavo la lettera senza riuscire a concentrarmi su una sola delle parole che erano impresse sul foglio.
All'improvviso scoppiai in un pianto lacerante, i singhiozzi impregnavano l'aria di una delle tristezze più nere che avessi mai conosciuto.

Era come se tutte quelle lacrime stessero trascinando via da me  ciò che di vitale mi rimaneva. Mentre le lacrime mi rigavano il volto che avevo nascosto tra le ginocchia, tenevo ancora stretta la lettera tra le mani.
Non smisi mai di piangere per un'ora o forse due. Quando finalmente riuscii a bloccare le lacrime, i primi raggi del tramonto illuminavano i boccioli dei fiori, immergendo la serra in un'atmosfera surreale e onirica.
Chiusi gli occhi per qualche momento, cercando di non pensare alla testa che mi sembrava sul punto di esplodere e alla nausea. Provai a ignorare i tremiti che mi scuotevano il corpo, respirando profondamente e cercando di riprendere controllo di me stessa.
Quando riuscii a calmarmi, era come se qualcosa, dentro di me, si fosse spezzato.
Fu un attimo. Un piccolo, significante istante.
Non provai nessun tipo di dolore, solo quello che alle mie orecchie suonò come un crack. Poi, più niente.
Era come se una parte di me volesse correre da Eiji, gridargli che lui si era sbagliato in tutto, dalla prima all'ultima parola, gridargli che era una persona migliore di quello che credeva, riuscire a fargli vedere quello che vedevo io. Gridargli che l'unico motivo per il quale quella luce esisteva, era lui.
Ma una parte di me si era arresa, semplicemente.
Era come se tutte le lacrime che avevo pianto, rileggendo quella lettera come se ne fossi ossessionata, come se leggendola così tante volte il contenuto potesse improvvisamente cambiare, avessero portato via da me ogni tipo di sentimento.
Mi sentivo arida, prosciugata.
Trasparente.
Come se da qualche parte, nel profondo, fossi stata brutalmente assassinata.
Era come se fossi morta dentro.
Quello fu il punto di rottura. Il punto dal quale non sarei più riuscita a fare ritorno.
Il vuoto.
Tutto sì fermò. Non c'era più tristezza, non c'era più rabbia, amarezza.
Nulla, se non una sgradevole e insolita sensazione che mi attanagliava le membra.
Una pesantezza informe che faceva apparire la realtà circostante come una densa nebbia grigia.

Vento, cose e poesia.Where stories live. Discover now