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Il fischio assordante dell'Orient Express sui binari europei lo riscosse dalle sue riflessioni, un brivido gli percorse la spina dorsale.
Le chiacchiere e le esclamazioni gioiose in francese gli ronzarono nelle orecchie, mentre donne e uomini finemente vestiti si radunavano davanti al binario, pronti a salire sul lussuoso treno che, da sette giorni, aveva lasciato Costantinopoli e, finalmente, aveva raggiunto Parigi. La Gare de Paris Est era evidentemente caotica, ogni singola persona aveva un ruolo, e le grida dei controllori e dei capostazione sovrastavano senza problemi il fischio delle ruote sui binari, amplificate da megafoni biancastri; il caos oltre la porta scorrevole del suo scompartimento rifletteva l'entusiasmo dei nobili e degli aristocratici con cui aveva condiviso il viaggio da Costantinopoli nell'essere finalmente in salvo, tra le mura sicure dell'Europa Occidentale, lontani dai rischi che la Russia conferiva.

Si alzò lentamente, il silenzio ronzava fluttuante dentro di lui, il peso della pistola di suo padre si faceva tremendamente grande nella tasca destra del cappotto. Da quando Popov, Dmitry ed Anya erano saltati giù dal primo treno, quello che collegava Leningrad con Istanbul, non aveva avuto pace. Si era chiesto in continuo dove fossero, che cosa stessero facendo. Come stesse Anya.
Pur essendo conscio di non poterla difendere e proteggere, pur capendo che non avrebbe potuto avvicinarsi a lei finché non fosse stato il momento giusto, voleva saperla al sicuro. Voleva essere certo che stesse bene, che non le mancasse nulla.
Scosse il capo, distogliendosi dal pensiero, sgusciò fuori dall'Orient Express, a testa china.

Era sera, e le luci parigine scintillavano furiose attorno a lui, al punto da quasi accecarlo; donne elegantemente vestite camminavano allegre e non accompagnate sui loro tacchi bianchi, i loro riccioli compressi in acconciature che lasciavano le spalle scoperte, alcune avevano addirittura i capelli corti, e folte pellicce d'animali indescrivibile coprivano le loro esili braccia; uomini in frac passeggiavano per la stazione, le loro lucide scarpe nere scintillavano sotto le luci dei lampioni, i loro capelli tirati all'indietro splendevano, come se tenuti fermi da una strana sostanza brillante. Ogni persona era vestita in maniera diversa, i sorrisi splendevano sui loro volti, ognuno pareva esprimere le sue idee senza alcuna paura, ognuno si comportava come meglio riteneva; e le chiacchiere scorrevano allegre, il fumo delle sigarette delle donne volava verso il cielo, il rosso fuocherello dei sigari degli uomini bruciava come un falò ai suoi occhi spaesati.

Che razza di posto era quello?

Non si trovava certo in Russia.
Stordito da quella moltitudine di colori e di comportamenti, Gleb si sfilò il colbacco e la sciarpa di lana, accaldato: era sera, eppure faceva tremendamente caldo, quindici gradi almeno, forse anche di più! Indolenzito dal lungo periodo passato seduto sul treno, il vicecommissario avanzò a passo di marcia tra quella folla stordente, le tempie gli pulsavano fortemente, lo stomaco languiva, addolorato.
Un uomo avvolto in una divisa blu dalle rifiniture dorate gli si piazzò davanti, interrompendo la sua camminata verso l'uscita della stazione; fu imbarazzante per Gleb scoprirlo vergognosamente più alto di lui e, intimidito, sollevò lo sguardo, per incrociare quello dello sconosciuto.

<<Papiers, s'il vous plaît.>> fece con serietà quest'ultimo, il suo sguardo di ghiaccio fisso su di lui. Gleb sgranò gli occhi, perplesso: <<S-scusi? N-non capisco ...>> mormorò, l'imbarazzo così grande da cominciare a farlo ad arrossire. Ma l'altro, intuendo le sue soffocate parole, inarcò un sopracciglio: <<Russo?>> chiese, il suo accento francese spiccò orribilmente nel pronunciare quelle parole. Il vicecommissario annuì, sorpreso: <<Lei parla la mia lingua?>>
<<Poco.>> ribatté l'altro senza lasciar trapelare alcuna emozione <<Carte, per favore.>>
L'uomo infilò una mano nella tasca sinistra del cappotto, vi frugò per qualche istante, le sue dita finalmente afferrarono il fagottino di carta che gli interessava; lo estrasse dall'indumento, lo porse al controllore, o almeno a colui che sembrava esserlo. Questi prese le carte tra le dita, aprì l'involucro, i suoi occhi azzurri scrutarono attentamente ogni singolo dettaglio, al punto da mettere Gleb in soggezione: che cosa diavolo c'era di sbagliato? Il colore era giusto, il nome era giusto ...
<<Monsieur Gleb Sergeevič Vaganov?>> lo richiamò il francese, un piccolo sussulto lo scosse. Annuì rapidamente: <<Sì, sono io.>>
Il controllore si aprì in un sorriso.
<<Benvenuto a Parigi, monsieur.>> disse <<Buona permanenza.>>
<<La ringrazio.>> borbottò Gleb afferrando il suo visto, per poi allontanarsi, pensieroso.

Insieme a ParigiWhere stories live. Discover now