Gwyn

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Seduto in una roccia, Gwyn, stava osservando un burrone infinito. Immerso nei suoi pensieri, cercava di costruire un'esistenza migliore, lasciandosi alle spalle il buio e la monotonia. L'essere vuoto stava aspettando qualcosa, voleva credere ad una rivoluzione, e dentro di sé, anche se al di fuori non lo mostrava, voleva cambiare se stesso e la sua realtà, per proliferare un giorno con la sua gente in superficie. Si alzò, e cominciò a salire la lunga scalinata, unico collegamento tra sottosuolo e la terra superiore. Strofinò la sua mano sulla parete mentre saliva le scale cercando di cogliere quel qualcosa che potesse cambiare per sempre il suo modo di vivere, ma niente, il grigio, la neutralità, la nuda pietra, ed il nulla che lo circondava non lo aiutavano a risvegliare in sé quel suo desiderio, ormai morente, di un futuro cambiamento. La roccia frastagliata tagliuzzò la sua pelle rinsecchita, ma neppure una goccia di sangue uscì dalle lacerazioni. Oramai era diventato un corpo vuoto, abbandonato a se stesso, la pelle era mummificata, i muscoli quasi inesistenti. Per non parlare della faccia, anzi di quel che ne rimaneva. A poco a poco, anche i suoi pensieri stavano appassendo, condividendo il destino inesorabile del suo corpo. Nei suoi occhi rossi e stanchi si poteva leggere la solitudine e la delusione verso quel mondo di cui faceva parte. Intravedendo la fine, allungò le mani in avanti, come se il tatto fosse l'unico senso rimastogli.

Si appoggiò all'imponente porta. Sapeva cosa c'era al di là. La superficie.

Una distesa sterminata composta da rupi, monti, acque ghiacciate e distese deserte di sabbia grigia, come la tela monocromatica di un cupo pittore: tutto era amorfo e avvolto nella nebbia, il terreno era così assiderato e secco che scricchiolava tristemente mentre lo si calpestava. L'aria fitta e polverosa rendevano la visibilità quasi nulla. Era impensabile poter esplorare quella terra, ma quelle erano solo sensazioni, sensazioni previste e assimilate in tanti anni. Nessuno poteva dire o provare cosa potesse esserci. E soprattutto come potesse essere il mondo al di fuori. Poche entità abitavano in superficie e una di queste erano gli Arcialberi. Composti da cumuli eterni di cenere erano così alti da estendersi fino al cielo, superando anche le nuvole grigie che in quel tempo oscuravano la terra. Ceneri di antichi guerrieri vissuti in un'era precedente. Si percepivano ancora le urla degli incantesimi lanciate a squarciagola. Ma per chi ci abitava tali grida di dolore e sofferenza erano soltanto canzoni melodiche, un sussurro eterno a cui erano abituati.

I draghi avevano stabilito la loro casa in un castello abbandonato in mezzo alla foresta di Arcialberi. Erano gli unici esseri della superficie dotati di intelligenza, la razza più potente e colossale di sempre. Solo loro regnavano su tutta la terra, in virtù della loro forza sovrannaturale e della loro invulnerabilità.

Nessuno ormai aveva memoria di quando successe il tutto, ma furono loro a chiudere nel sottosuolo i giganti, condannandoli per l'eternità a vagare nel buio, aspettando che diventassero vuoti e dannati. Sopraffatti dall'immenso potere, i giganti non poterono fare altro che accettare la terribile condanna dei draghi pur di riuscire a salvare la loro stirpe.

Gwyn pensò a tutto questo in un istante, come fosse un sogno. Alzò lo sguardo e colpì la porta con un pugno. Nei suoi occhi opachi senza colore, incapaci di piangere, non c'erano lacrime, ma si percepiva lo stesso l'enorme dolore che provava. Il loro urlo silenzioso era inequivocabile. Dando la schiena alla porta, ripercorse la scalinata al ritroso per tornare ad aiutare i suoi simili.

Nel sottosuolo c'era un villaggio di giganti, gente ormai senza alcuna speranza e che, poco a poco, stava perdendo ogni capacità mentale. Si stavano "svuotando", diventando sempre più degli involucri vuoti privi di senno. Ma in quel villaggio la voglia di continuare ad esistere era molta e si davano forza l'uno con l'altro per cercare di non perdere il nesso. Appena entrato nel villaggio i sensi e l'aspetto di Gwyn migliorarono sensibilmente, solo grazie al calore che derivava nello stare al contatto con la sua gente. L'officina di famiglia era dietro la sua casa, Gwyn sapeva che all'interno avrebbe trovato il babbo con il martello in mano. L'ammasso di ferro lavorato posto fuori dalla porta dell'officina era d'intralcio per qualsiasi gigante. Lavoravano instancabilmente senza mai fermarsi e l'accumulo di armi stava diventando ingestibile. L'officina non era poi così grande, ma era comunque fornita di tutto il necessario. In un angolo, vicino all'incudine nera, c'era un tavolo da lavoro sul quale erano sparsi diversi attrezzi: tanti martelli, pinze ed alcune polveri riparanti. In mezzo alla stanza ardeva la fornace attorno alla quale Ran, il padre di Gwyn, stava picchiando il ferro con l'abituale forza:

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