Pratica

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  Rebecca

«Ciao, grazie!»  

Prendo la mia valigia e scendo dal taxi. Ancora un poco scossa dall'accaduto precedente, decido di dare il mio umore in mano alla riproduzione casuale di Spotify. Metto le cuffie e sospiro profondamente. Non so minimamente dove andare. Bologna è una nuova città per me, piccola campagnola abituata a crescere fino ai 16anni in un piccolo paesino della Sardegna, e poi in provincia di Milano. Ho perso tutto all'età di 14anni, quando mio papà ha deciso di poggiare i piedi sulle nuvole, rendendo il mondo un filo più vuoto. Ho perso tutto perchè ho perso la parte più pura di me, quella parte che nella sua leggerezza aveva la consapevolezza della vita. Ho perso l'uomo che il 'Rebecca, come stai a papà?'  detto con quell'accento sardo che, a tratti, diventava anche possibile da decifrare, non se lo faceva mai mancare. Di venerdì papà ha deciso di volare, venerdì alle 10.35, durante la mia ora di educazione fisica. Io correvo avanti e indietro, sentendomi mancare un pezzo di cuore. Ho perso tutto, perchè con lui ho perso anche mia mamma, e con mia mamma ho perso anche mia sorella, e con mia sorella ho perso anche me stessa, e ora tocca ritrovarmi.

  «Ma sei cretina?»  

Sento una mano toccarmi la spalla. Mi giro e vedo un ragazzo dai capelli mossi, scuri e folti.

  «Come scusa?»  Chiedo nervosa.

Lui abbassa lo sguardo, vede la valigia, sorride e con un movimento del naso previene la caduta dei suoi rotondi occhiali.

  «Ora si capisce tutto. Comunque non percorrere Piazza Maggiore in diagonale, sennò la laurea non la vedrai mai!»  Dice. E se ne va. 

Rimango sbalordita dalla sua affermazione, per poi rendermi conto di esser arrivata nel centro di Piazza Maggiore. Ma proprio nel centro della piazza. Me ne innamoro subito, maestosa come è. Inizio a guardarmi intorno e a cercare il mio punto di riferimento. Percorro per lungo e per largo tutto il diametro, ma non ne trovo mezza traccia. Inizio ad innervosirmi e a chiedere informazioni ai passanti. Poca gente mi dona la propria attenzione, i rimanenti mi evitano. Una signora anziana, di quelle signore con il carrellino della spesa, decide di aiutarmi. Figliola seguimi, mi dice sorridendo, per poi portarmi finalmente a destinazione. Io rimango di stucco, la signora mi abbandona. Non riesco a muovere più nessun muscolo, le mani mi cedono lasciando cadere l'iphone a terra. 

  «Cazzo.»  Sussurro tra me e me. 

Un locale vuoto, una vetrata. Ecco cosa stavo osservando. Il mio locale vuoto, la mia vetrata. Non riesco più a ragionare e gli occhi si fanno subito lucidi. Più di una volta mi tiro un pizzicotto nel braccio per cercare di svegliarmi, rendendomi conto che sogno tanto non è. Apro la borsa, tiro fuori il mazzo di chiavi e mi avvicino con passo timido alla porta. 

Per la prima volta, apro il mio locale. 

Il mio. 

 «Papà, sii fiero di me.»  


Questo capitolo è corto, non è un granchè. Scusatemi, ma mi serviva come 'introduzione' della storia. I prossimi saranno decisamente meglio. 

Passate anche a leggere 'come un caccia militare [Nelson Venceslai]', è la mia nuova fan fiction. 

Con la speranza che ciò che scrivo vi piaccia. 

Venerdì seraWo Geschichten leben. Entdecke jetzt