L'arte non è una cosa seria

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Taehyung amava perdutamente il rosso. Eppure fin da quando aveva otto anni e disegnava le stelle del cielo con la punta consumata della sua matita gialla Giotto, di cui andava estremamente fiero, era stato condannato al colore indaco. Chissà il perché, lui non lo aveva neanche capito, la sua insegnante di italiano gli chiedeva: «Lo conosci questo colore, piccolo? Lo conosci il colore indaco?» e lui non rispondeva, taceva e la guardava stordito: «Che colore è il colore indaco?» pronunciava, quella lingua così diversa da quella parlata dai suoi genitori gli arrivava già alle orecchie vergini come una cantilena romantica. Lei gli accarezzava dolcemente la schiena, un gesto d'affetto che non sapeva se elemosinare con tutto se stesso o se disprezzare. Aveva capito molte cose ma ostentava un'ingenuità cieca, quasi non si rendesse conto delle sue effettive potenzialità. D'altronde, era comprensibile spaventarsi e tremare sotto le coperte, i cambiamenti avevano causato una bruciatura ancora fresca e dolorante. Era un bambino che s'affezionava facilmente. Taehyung, piccolo Taehyung, che fare con te?

La donna di mezza età gli aveva indicato un cartellone appeso sulla parete est dell'aula, su quel cartoncino azzurrino vi era disegnato un grande arcobaleno. «Guardalo» gli diceva, «L'indaco è proprio lì, lo vedi?». Taehyung se lo ricordava, lo aveva colorato lui stesso la settimana prima. Sì, aveva risposto, sì, maestra, lo vedo. «Ti assomiglia». E perché? Perché mai dovrebbe assomigliare ad un colore o un colore assomigliare a lui? Sei un bambino indaco, io ci credo, lo sai? Sei speciale, Taehyung.

Crescendo avrebbe puntato il dito contro quella maestra, con gli anni ci avrebbe ripensato con disappunto, riducendo la sua persona minuta e gentile ad una "signora infognata con la subcultura New Age". Stringeva i pugni e si legava il filo del rancore al dito indice. Kubrick dipingeva di colore rosso le scene più claustrofobiche dei suoi film e Taehyung, a gambe conserte, osservava con ammirazione quella combinazione. I suoi occhi s'annacquavano. Io voglio essere forte, pensava. Fare del mio essere incasinato la mia unica forza. In camera aveva appeso alla parete spoglia un poster di Sussurri e Grida, rubato da qualche parte e chissà più dove, attaccato con delle puntine instabili e scolorite, ritrovate in una delle cassette della scrivania di suo padre. Ingrid Thulin lo aveva incantato, ancora una volta il suo fascino non era passato in secondo piano. Ma, Taehyung lo doveva proprio ammettere, il vero Cupido era stato proprio Bergman e quel rosso stracolmo di morte e dolore aveva impregnato la pellicola con la stessa ferocia con cui aveva fatto breccia nel suo maledetto cuore.
Il suo insegnante di filosofia diceva, fiero e prepotente, che a quell'età restiamo folgorati dalla perdizione. Riusciva a banalizzare con due frasi e quattro pause i libri che Taehyung non smetteva di rileggere. «Verlaine, Rimbaud, Baudelaire... sono tutti poeti che a diciannove anni ti piacciono per forza, è un dato di fatto» diceva, «Quando avevo la vostra età facevano impazzire anche me». Il rosso è anche il simbolo della passione, lo è da tempo, e Taehyung voleva ribellarsi, voleva amare, voleva concedersi il permesso di poterli amare. Joze gli aveva dato la sua benedizione. Nelle notti più tristi, tra le coperte umide d'incomprensioni, sentiva di potersi paragonare a Theodore Twombly. Non era nemmeno felice di ciò, come poteva esserlo? Si era incantato guardando una realtà lontana in tutto e per tutto dalla sua. Aveva diciannove anni e voleva strapparsi quel cuore pesante e malinconico.

Usciva di casa nel pieno della notte, restava in pigiama ma aveva ancora la decenza di coprirsi, indossando il suo unico giubbotto, lungo fino alle caviglie. Si allacciava gli anfibi e si assicurava di avere tutto ciò che poteva servirgli dentro le tasche capienti. Erano le due di notte ma a lui non importava. Se suo padre era ancora sveglio gli diceva: «Esco con alcuni amici». L'uomo accennava un sorriso che in realtà non voleva troppo ostentare, in fin dei conti non poteva mica concedere a suo figlio certe soddisfazioni, altrimenti ne avrebbe pretese altre e altre ancora. Allora si sistemava sulla poltrona, si metteva dritto con la schiena e si raschiava la voce con qualche colpo di tosse leggero per non rischiare di svegliare la moglie. Mantenendo un tono severo diceva al figlio: In teoria questa sarebbe l'ora in cui dovresti essere di ritorno a casa e non quella in cui invece esci. Però divertiti, figlio mio, pensava. E quando all'andar via del giovane sentiva la porta chiudersi alle sue spalle gioiava in silenzio. Mio figlio ha degli amici! Alla faccia di chi aveva detto il contrario. Agli incontri con gli insegnati s'era sempre sentito dire le medesime parole, ogni volta, ogni santissima volta, quelle signore malferme gli chiedevano: «Lo capisce l'italiano?». Certo, rispondeva fiero, altrimenti non sarei neanche qui o con me ci sarebbe stato un mediatore. Ma, annuiva sicuro, non soffermiamoci su questi particolari, sono qui per parlare di mio figlio, com'è Taehyung a scuola?

Franz Kafka era un finocchioDove le storie prendono vita. Scoprilo ora