4

455 16 0
                                    

A cena io e Timothée non ci sedemmo vicini; lui stava accanto a Moe e, a dividerci c'erano due posti. Non ci parlammo per tutta la sera; ne sentii terribilmente la mancanza, quasi come se avessi lasciato qualcosa in sospeso.
Una volta finita la cena, Adrien e papà andarono in veranda a fumare, mentre io e Moe sparecchiammo la tavola. «Che ne pensi degli ospiti?» mi domandò lei, mentre spolverava il pavimento della cucina. «Non penso niente» risposi, mettendo i piatti in lavastoviglie.
Moe mi fissava, mentre piegava la tovaglia, «E di Timothée? Non pensi nulla neanche di lui?»
«Lui sembra un tipo apposto»
«Apposto», ripeté. Immaginavo dove volesse arrivare, «Che vuoi dire?» gli domandai, un po' sulla difensiva.
«Nulla», fece lei, scrollando le spalle. «Passami gli ultimi piatti, ti aiuto a metterli in lavastoviglie» allungò il braccio sinistro verso di me, e le passai una delle stoviglie rimaste.
«Moe, secondo te sono abbastanza carina?» le chiesi impulsivamente, dopo un po'. Non sapevo nemmeno io come quelle parole fossero uscite dalla mia bocca. Anche Moe rimase sorpresa: «Perché me lo chiedi?» ridacchiò.
«Così» dissi  facendo spallucce.
«Certo che sei carina, Nora. Non dovresti nemmeno chiedermi queste cose. Tu est exceptionnel, petite
Non mi sentii abbastanza soddisfatta nemmeno dopo la sua conferma; era complicato, in quel periodo, definire il mio grado di bellezza. Avevo bisogno che qualcuno, ogni tanto, mi confermasse che, per i canoni del mondo, andassi bene così.

Fu dura addormentarmi, quella sera. Continuavo a pensare a Timothée e al fatto che, in quel momento, stesse respirando da dietro la porta di fronte alla mia camera. Sperai che nemmeno lui riuscisse ad addormentarsi, e, per un secondo, immaginai che si stesse girando e rigirando tra le coperte, pensando a cosa stesse occupando i suoi pensieri a tal punto da togliergli il sonno. Forse ero io. Speravo di essere io. Ti prego, Timothée, fa che sia io.
Non ci eravamo detti nulla, prima di andare a letto. Solo uno sguardo, niente di più. Ma non era uno di quelli da cui uno possa dedurre qualcosa. Era uno sguardo e basta: due occhi che si incrociano, senza scambiarsi niente. Avrei voluto dargli almeno la buonanotte. Tra due settimane se ne sarebbe andato. Mi arrabbiai. Una lacrima mi scivolò sulla guancia, la stessa che, poche ore prima, Timothée aveva accarezzato piano: perché papà li aveva fatti venire qui? Perché mi faceva questo? Volevo parlare con la dottoressa Gaillard, ma non potevo: sarebbe arrivata in paese solo in estate e, in estate, Timothée sarebbe già stato lontano.

Mi affacciai dalla finestra. Riuscivo a vedere la punta della montagna su cui la neve si stava già sciogliendo. Anche i campi lontani erano ormai ridotti a distese scure e macchie bianche che, ogni giorno di più, si rimpicciolivano sotto i miei occhi. Sotto la mia finestra, la cuccia di Chester vuota. Il tempo si sarebbe portato via anche lui, prima o poi, ed io non avrei potuto farci nulla. In punta di piedi, scesi al piano di sotto, dove vidi Chester accovacciato davanti al camino che, seppur spento, continuava ad emanare un po di calore. Non appena mi sentii scendere le scale, si tirò su e mi corse incontro, scodinzolando.
Una volta arrivati in camera mia, mi chinai all'altezza del suo muso, «Puoi dormire con me? Io non ci riesco, da sola.» Si diresse immediatamente verso il mio letto. Mi sdraiai accanto a lui, e pregai che il tempo mi concedesse di stare con lui il più possibile. Gli presi una zampa, e mi ricordai la frase che papà pronunciò quando lo accarezzai la prima volta, appena lo portò a casa. «Vedi, Nora? Da questo momento sarete legati per sempre. Lui proteggerà te da ogni cosa, e tu proteggerai lui. É quel che fanno gli amici»
Sentivo il suo cuoricino battere. E, come una delicata ninna nanna, quel dolce suono fece addormentare anche me.

La mattina fui svegliata da Aksel, che alle sette e mezzo si fece trovare in camera mia. Chester stava ancora dormendo ai piedi del letto, ma appena sentì mio fratello sedersi sul bordo del materasso, alzò di colpo il muso. «Aksel, è prestissimo. Che accidenti vuoi?» gli chiesi, guardando l'orologio. Mi spiegò che si vergognasse di svegliarsi prima di tutti.
«Magari anche gli altri si vergognano. Qualcuno dovrà pur iniziare la giornata.» il silenzio che si creò mi fece intendere che avrei dovuto farlo io. Sbuffai, ma ormai era troppo tardi per rimettermi a dormire. Quindi mi alzai dal letto, massaggiandomi gli occhi e stiracchiandomi un po', e poi mi diressi davanti allo specchio, legandomi i capelli. «Chester ha dormito qua, stanotte?» mi domandò mio fratello, appoggiato alla mia scrivania. Annuii, spiegandogli che avevo fatto fatica a prendere sonno. «Tu come hai dormito? gli chiesi a mia volta. Abbastanza bene, in fin dei conti» fu la sua risposta.
Poi andammo in bagno, seguiti da Chester, e ci lavammo entrambi il viso come avremmo fatto normalmente, se fosse stata estate. Stavano ancora dormendo tutti, quindi cercammo di fare più piano possibile. «Cosa vuoi per colazione?» gli domandai, una volta arrivati in cucina.
«Quello che prendi tu»
«Io non ho molta fame, in realtà»
Ci guardammo in silenzio, poi, contemporaneamente, esclamammo: «Niente colazione, solo per oggi» e successivamente, come quando eravamo piccoli, facemmo toccare la punta dei nostri indici, simbolo che stava ad indicare che quel che avevamo appena detto sarebbe rimasto tra noi.

Si svegliarono tutti nel giro di un paio dore. Moe fu sorpresa di vederci già in piedi, e ci chiese se avessimo già fatto colazione. «Oui, il y a une heure» risposi, mentre vedevo scendere Timothée dalle scale, seguito da sua madre. Mi sorrise. Gli sorrisi anche io.
Adrien e Moe discussero del tempo. «La neve sta per sciogliersi, vedo! Ne resta solo un po' ai bordi della strada. La primavera è alle porte» esclamò il primo. E per fortuna, pensai; non ne potevo più di tutto quel bianco.
Verso le undici, capendo che quella mattina non avrei fatto granché - papà aveva detto a Pauline di interrompere momentaneamente le lezioni per via degli ospiti, sfruttandola come una sorta di vacanza -, salii in camera mia, col proposito di tirare di nuovo fuori il mio diario, su cui non ero poi così solita scrivere. Preferivo di gran lunga trascrivere i miei pensieri su minuscoli pezzetti di carta, che custodivo in una vecchia scatola di latta sotto il letto. Il diario era invece, per me, un impegno molto più faticoso: se in un pezzo di carta avevo uno spazio ristretto per scrivere ciò che sentivo, nel caso di un diario avrei dovuto riempire un'intera pagina, e ciò mi metteva agitazione. Ma questo non voleva dire che non lo usassi affatto; lo tenevo per le occasioni importanti. E, nonostante non avessi ancora nulla di importante da raccontare, ebbi una strana voglia di rileggere l'ultima cosa che avevo scritto. Così, senza pensarci due volte, corsi di sopra.

jugend - timothée chalametDove le storie prendono vita. Scoprilo ora