24: Il gioco delle venti domande

2.7K 164 13
                                    

Madrid, ultima tappa della parte europea del Deus Ex Machina Tour.

Le luci erano basse, l'intero stadio immerso nel trepidìo dell'attesa che si spegnessero, che la musica cominciasse, che l'assolo di batteria di Shannon annunciasse il principio di tutto, l'inizio di un'avventura.

Era così che Camila aveva imparato a percepirlo nel corso degli ultimi mesi. Non si trattava più di un'esibizione fine a se stessa, un'ora e mezza di musica ininterrotta in cui l'unico scopo era cantare e seguire il ritmo.
No, era molto di più.
Era un viaggio, un rito iniziatico, una celebrazione. Il momento in cui quindicimila respiri e battiti cardiaci si sincronizzavano gli uni agli altri, tutti trasportati dall'onda dei The Exodus.

E la band significava molto più di un semplice aggregato di strumenti e voce. Era un culto, un'unica sensazione condivisa da migliaia di anime.

Così Camila stava assistendo a quel concerto, seduta in prima fila della tribuna telescopica dell'arena, al di sopra e più vicina di tutti al palco.
Sotto di lei, un mare di mani alzate e voci che si mischiarono in un unico boato nell'istante in cui il primo colpo di tamburi sferzò l'aria.

Per la prima volta da quando li conosceva, la bruna li guardò con gli occhi di una fan, e non di una manager. Si lasciò trasportare dalla musica, ballò e mormorò ogni parola a labbra strette, occasionalmente la urlò a squarciagola. Camila pensò che non si potesse descrivere finché non lo si provava direttamente. Un tornado di energia che si librava e riecheggiava dal palco al pubblico, un continuo contraccambio tra le loro voci e gli sguardi, i gesti di ognuno dei cinque musicisti.

Lauren splendette.

Bagnata da raggi di luce blu, verde e viola, brillava di un'aurora celestiale, e le gocce sul suo volto non parevano sudore ma perle. La sua voce come il quieto rombare di un temporale lontano che ti culla fino a dormire, accompagnato dalla pioggia e dallo scrosciare di chitarre e basso e batteria e piano quando fu necessario.

Camila non sprecò forze ad imporsi distogliere lo sguardo, che rimase fisso su di lei finché vibrarono le ultime note dell'ultima canzone, e anche l'ultimo coriandolo variopinto toccò il suolo.

Si sarebbero fermati per qualche settimana prima di chiudere il giro con quindici ultime tappe negli Stati Uniti, e francamente era ben chiaro che tutti non vedessero l'ora di tornare a casa, stremati e provati da quell'intenso viaggio senza sosta.

Per questo, presero il primo volo la mattina seguente, che il sole era sorto da meno di un'ora sulla capitale spagnola, e non appena Camila appoggiò il collo al sedile dell'aereo, giurò a se stessa che non avrebbe riaperto gli occhi finché non fossero atterrati a San Francisco - il che vale a dire almeno dieci ore più tardi.

Infatti, nell'istante in cui misero piede a casa, Judith non fu affatto sorpresa di vederle crollare un minuto dopo averla salutata. Ormai Camila era convinta di essere quasi abituata, ma il jetlag era pur sempre difficile da superare.

Dormì quattro ore, quel pomeriggio che divenne sera letteralmente in un battito di ciglia, ma si sentì rinata nell'istante in cui riaprì gli occhi.

Si trovò con un paio di chiamate perse sia da Dinah che Normani, prevedibile conseguenza del proprio messaggio in cui comunicava loro il proprio ritorno in città. Rispose velocemente a qualche messaggio, con la promessa di mettersi d'accordo per rivedersi, un giorno di quelli, e poi balzò giù dal letto, impaziente di infilarsi sotto la doccia.

Mentre scendeva le scale udì dei rumori provenire dalla cucina, così affrettò il passo, sicura di trovare Judith a preparare la cena - il suo stomaco aveva cominciato a produrre brontolii strani ma totalmente motivati, dopo più di sei ore trascorse senza metterci nulla.

The Exodus ≈Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora