CAPITOLO 19

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Era buio.

Così buio che sembrava essere stati inghiottiti dal nulla cosmico.

Gli odori del posto erano forti e stagnanti. Si sentiva il nauseante lezzo del piscio e delle feci, il forte puzzo della muffa che impregnava l'aria e l'acre e viziato fetore del vomito.

Quel mix di esalazioni maleodoranti erano solo una nota di sottofondo all'atmosfera che si respirava in quella stanza. Il silenzio e l'oscurità riuscivano a mettere a nudo ogni debolezza.

Vell si tirò indietro, cozzando contro la parete. L'umidità trasudava dai muri che davano l'impressione di essere bagnati. Il freddo filtrava scivolando sul corpo nudo della giovane che d'impulso cercò di chiudersi a bozzo, tirando le gambe al petto.

Le catene tintinnarono, tendendosi e arrestando i suoi movimenti.

Erano quattro giorni che era lì dentro, ma lei non lo sapeva. Il tempo scorreva senza scandire né giorno né notte. Quel buio mangiava tutto, mangiava perfino la sua paura.

Infatti, da quando era stata gettata su quel pavimento, nuda e incatenata, le emozioni si erano fatte vive e martellanti, spaventose e sovrastanti, finché a un certo punto erano svanite.

Improvvisamente si era ritrovata vuota come un foglio bianco, una cassetta da registrare, una bambolina abbandonata.

Quello che le restava era solo il suo corpo, che cercava di stringersi con smania quasi a volersi assicurare che lo avesse ancora, che ne fosse ancora in possesso.

Un corpo pieno di lividi, tagli, botte e bruciature. Pieno di squarci nella pelle e segni vecchi ormai divenuti cicatrici.

Le articolazioni le facevano male, stare costretti per troppo a lungo in una posizione finiva per indolenzire ogni muscolo. Le catene erano in argento e lei sentiva bene i solchi scavati nella carne, l'odore ferruginoso del sangue, il male dovuto alla pelle viva.

Si chiedeva se un giorno sarebbe mai finito tutto questo.

Se un giorno sarebbe riuscita a sfuggire da quel posto fatto di violenza e paura, di botte e dolore.

Ci sperava con tutta se stessa, ma nel frattempo era costretta a scontare una pena assurda, immotivata; una delle tante a cui era già stata sottoposta.

Quattro giorni prima Marius l'aveva picchiata dicendole che gli aveva disobbedito e lo aveva umiliato. Vell non sapeva darsi spiegazione a quella sua violenza. L'unica motivazione che le veniva in mente era quella breve chiacchierata che aveva fatto qualche giorno prima a una cena da lui organizzata.

Si era raccomandato di allietare i commensali ed essere cortesi, così quando uno dei tanti capibranco del Kansas si era avvicinato, lei aveva eseguito semplicemente l'ordine del suo Erus e ci aveva cordialmente parlato. Nulla di più.

Sapeva che aveva il divieto di parlare con altri uomini, ma Marius si era raccomandato di fargli fare bella figura. Che figura avrebbe fatto se avesse voltato le spalle all'ospite andandosene?

Era nato tutto da lì, da quel breve e semplice scambio di battute a cui il suo King aveva assistito con la furia negli occhi.

A cena conclusa si era ritrovata trascinata per i capelli, per i corridoi della Villa.

Denudata, picchiata e infine portata nella stanza nera. Era così che lei e le altre la chiamavano: la stanza nera.

Marius ti trascinava lì quando era all'apice della sua rabbia, ti gettava dentro legandoti a delle catene che erano inchiodate al pavimento e ti lasciava a marcire lì fin quando lo riteneva opportuno.

ARTIGLI - BACIO INATTESOWhere stories live. Discover now