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La vita è fatta di opportunità, ho sempre detto.

Tutto sta nell'avere fiuto ed io, modestamente, sono un vero segugio. E, come i veri segugi, l'addestramento può migliorarti o affinare le capacità, ma il resto è tutto nei geni.

Ed io capii immediatamente, appena ricevetti quella maledetta telefonata, che lo spunto era ottimo. C'è odore di novità riguardo ad ogni sparizione, quel tipo di novità a cui i lettori s'affezionano subito, almeno fino al nuovo tormentone che la rete offre.

Nel mio lavoro le dritte degli informatori sono vitali, specie quando dopo un paio di medaglie conquistate sul campo ti sbattono dietro una scrivania; però, ehi, lo stipendio fisso è fondamentale quando pensi di mettere su famiglia.

Ma cominciamo dall'inizio.

Mi chiamo Edoardo e all'inizio di questa storia scrivevo per l'Eco delle Cinque Terre. È un piccolo giornale, non penso lo conosciate, però sapete del processo che ha mandato in galera fino a venti membri di Confindustria per le tangenti intascate dalla camorra? Si, il caso Porti Sicuri. L'ho smontato io, e le offerte dai quotidiani hanno iniziato a piovere. Ho scelto un posticino piccolo ma ben pagato perché all'epoca pensavo di andare finalmente a convivere con la mia fidanzata di allora. Diciamo solo che non ha funzionato: problemi di comunicazione suppongo; strano visto che sono pagato proprio per comunicare, ma pazienza.

Verso la fine dell'ottobre scorso, dicevo, ricevetti la soffiata di un mio informatore. Avevano denunciato una sparizione a Merillo, una frazione sul mare, poche case sotto un promontorio secondo Google Maps. Non mi seppe dire altro, ma pensava ci potesse essere lo zampino dei boss che non erano finiti al fresco, magari per ritorsione. Ad essere sincero, in quel momento ero abbastanza giù di corda per accettare qualsiasi lavoro, ma ogni cosa nel cubicolo asettico ch'era il mio ufficio mi ricordava Sara ed i progetti che avevamo per noi. Parlai quindi al caporedattore della cosa, infarcendo la dritta di dettagli totalmente ingigantiti: tutto per prendere una boccata d'aria e tornare in azione.

E, come sto per raccontare, in un certo senso n'è valsa la pena.

Il taxi accostò prima di una scarpata, dove l'asfalto finiva. Gli offrii un venti per scendere giù, ma lui si rifiutò: non si sarebbe giocato la macchina per così poco. E poi non era tanto lontano, spiegò, bastava solo evitare di rotolare giù.

Mi abbandonò in mezzo ad una macchia di arbusti che scendeva giù per cento metri fin sul mare; sotto di me solo rocce in quella piccola penisola ligure. Piccoli e secchi arbusti mi scortarono lungo il sentiero, diventando via via più fitti come in un roveto. Più volte pensai di fare ancora in tempo a tornarmene indietro e, sperando di trovare campo, richiamare il taxi. Il caldo insolito della stagione non aiutava, ed un odore molto vago mi nauseava. Ricordate che ho parlato di fiuto? Ecco, in quel momento aveva il raffreddore.

Cambiai opinione appena giunto a Merillo.

Il paese mi si presentò in un colpo d'occhio appena uscì sul ciglio della scalinata cavata nella roccia. La modernità pareva essersi fermata dietro di me, tanto che mancava persino un corrimano su cui appoggiarsi durante la discesa. Non ricordo di aver mai sofferto di vertigini, ma nei cinque minuti in cui discesi fissai il lato della parete; dall'altro udii chiaro il richiamo delle onde e delle rocce appuntite come canini pronte a mordere più in basso. Mi concentrai sui solchi scavati sulla superficie granitica, sottili come graffi ma realizzati con chissà quali strumenti. E chissà quanti anni prima, forse un secolo almeno.

La vista dall'alto mi ricordò una cartolina degli anni Cinquanta. Piccole barche erano in riva al mare, ma nessuna traccia di bagni; le strade erano prive d'auto, e come mezzi scorsi solo un paio di biciclette. Le case erano piccole e collocate un po' a caso, seguendo per lo più la volontà delle curve rocciose, mentre al di sopra di esse si ergeva il Massiccio Bruno, duecento metri sul livello del mare; un gran bello spettacolo, se non fossi stato per tutto il tempo con il naso attaccato alla fredda pietra cercando di non cedere al panico e cadere nel vuoto.

Un gruppetto di curiosi mi attese alla base della scala, dove la roccia si ricopriva di ciottoli biancastri e sabbia. Quando fui abbastanza vicino da squadrarli in viso, capii che non si trattava di un comitato di benvenuto: non un sorriso, nessun discorso. Non che mi aspettassi una festa del paese, però un'accoglienza migliore sarebbe stata apprezzata!

Insomma, ero pur sempre un turista.

«Buongiorno», salutai. Di fronte all'assenza di una reazione, mi presentai e tesi la mano, ma ancora una volta si comportarono come statue di sale.

Un energumeno mi si parò di fronte, lo sguardo severo. La lunga e bianca barba faceva da contraltare ad un berretto azzurro di maglia ed una canottiera logora ed ingiallita. I calzoni erano slabbrati e scoloriti da anni ed anni di salinità, e terminavano a metà degli stinchi, lasciando i piedi liberi.

«Giornalista» disse. E non era una domanda.

«Esatto» ammisi, ed allora iniziarono a mormorare. Per loro ero il ficcanaso che viene da fuori, il distruttore della tranquillità, una variabile fastidiosa da eliminare al più presto per far quadrare i conti.

«Oh, Edoardo!» una mano s'alzò nell'aria dietro il campanello di ricevimento. Il mio informatore era venuto a recuperarmi. «Mi ero scordato di avvisarti, temevo fossi rotolato giù dalla scogliera». Giacomo si era gettato addosso una camicia e una giacca bianche, e pareva tutt'altro che un pescatore. Sottobraccio stringeva una cartelletta con un logo familiare stampato sopra. Avevo avuto a che fare con sicari e minacce in passato, ma per la prima volta ebbi anche paura di aver involontariamente offeso dei comuni zotici.

Una volta sottrattomi ai miei nuovi amici, Giacomo mi portò al bar del paese. L'intera locanda puzzava di pesce, le pareti erano sudice come i cuscinetti delle sedie, divorati dal tempo abbastanza da permettermi di sprofondarci dentro.

«Mi sono messo in ghingheri per farmi riconoscere» confessò «qui neanche il sindaco porta la camicia!».

«Immagino» replicai studiando il bicchierino che mi avevano messo davanti.

Anche il vetro su cui avrei dovuto poggiare le labbra presentava macchie scure, e sembrava un reperto precedente alla guerra. Il liquore verderame all'interno non sembrava esattamente invitante.

«È locale» fece Giacomo, notando la mia riluttanza «provalo».

Mandai giù in un sorso le due dita di liquido, e attesi un misto fra grasso di pesce e antigelo. Invece rimasi piacevolmente sorpreso: i muscoli della gola si distesero, ed anche lo stress che mi aveva attanagliato fino ad allora si disciolse. Sorrisi, travolto dalla potenza e dal calore del dolce alcolico.

«Dolce, eh?» sorrise Giacomo. «Lo chiamano "Amore del mare"».

Non lo avevo mai sentito nominare, né lungo la costa né nell'entroterra, ma immaginai come i provinciali lo tenessero per loro. Esportarlo gli avrebbe fruttato parecchio, peccato non fosse quello per cui ero venuto.

«Dimmi tutto».

«Si tratta solo di un pescatore» fece le spallucce, come se per me la vita di un onesto lavoratore fosse nulla «ne scompaiono in mare tanti, ma ho pensato che questo caso potesse stuzzicare la tua curiosità; e poi ho pensato avessi bisogno di prendere un po' d'aria fuori dall'ufficio».

«Hai pensato bene» risposi, grato che avesse evitato di menzionare Sara.

«Allora andiamo».

Lo frenai prima che potesse alzarsi ed offrii un secondo giro di Amore del mare. Avevo gradito immensamente il primo assaggio e mi piace tutt'ora, nonostante sappia di cosa si tratta.

Amore del mareWhere stories live. Discover now