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Maria Maddalena Ivanov, panic room Villa Ivanov, New York.

"Sei sicura, Maria?"

Ivan mi aprì gli strumenti sterili su un carrello chirurgico con mani tremanti e due occhi così dilatati, da far invidia ad un cocainomane.

"No." Indossai i guanti ed iniziai a versare la fisiologica sulle garzine, cercando di ignorare le fitte alla gamba con il proiettile intruso. "Stai con Aleksei e aspetta Dimitri," risposi tra i denti. "Non guardare."

Mi scrocchiai il collo con un movimento secco e agguantai il bisturi; purtroppo, la copiosa quantità di sangue perso mi aveva indebolito molto, ma sapevo di non poter cincischiare oltre, quindi con un respiro profondo appoggiai la lama perpendicolare alla pelle. Non avevo fatto nessuna anestesia per mancanza di tempo ed il dolore sarebbe stato paralizzante, attutito solo dalla fibbia che Ivan mi aveva messo tra le due arcate dentarie, ma era necessaria quella operazione, o avrei rischiato la vita.

Quando spinsi la punta all'interno della carne, il muscolo quadricipite iniziò a guizzare e la gamba tremò spasmodica; la mia visuale si annebbiò, peggiorata dalla sudorazione eccessiva e il dolore mi fece quasi svenire.

"Concentrati."

La parte dell'incisione era delicatissima, se nella mia manovra avessi incontrato qualche arteria importante, avrei potuto dire addio alla mia vita, ma era necessario giocarsi il tutto per tutto.

Per Aleksei.

Per Dimitri.

Per la mia famiglia.

Furono quei tre pensieri a darmi la forza necessaria di spingere il bisturi nella mia carne e stringere quanto più possibile quella fibbia per non urlare. Lacrime salate mi scivolarono lungo le guance e, a causa del dolore penetrante, non udii le imprecazioni e nemmeno la porta della panic room spalancarsi con un boato assordante.

Nel mio campo visivo pericolante entrarono un paio di altri guanti in lattice verdi, seguiti da un altro paio ancora. Voci concitate e mani abili iniziarono a lavorare sulla mia ferita: qualcuno anestetizzò l'area, ma feci molta fatica a mantenere la concentrazione e sollevare la testa.

"Maria?" La voce di Andrej esplose nelle mie orecchie. "Maria?"

"Mary?"

Anche il timbro di Luca cercò di strapparmi dalla nube dell'incoscienza, ma fu solo il pianto di mio figlio a darmi la spinta necessaria per far battere in ritirata l'oscurità che aleggiava intorno a me.

"Ale..." Mi schiarii la voce e battei le palpebre. "Aleks?" La stanza sfarfallò per qualche secondo prima di stabilizzarsi. "Aleks?" In quello sprazzo di lucidità riuscii a riconoscere i capelli brizzolati del dottore della Drakta, Andrej con i guanti sporchi di sangue e Mikhail seduto all'altro capo della stanza con in braccio Aleksei addormentato. "Dimitri?"

Mi mossi troppo veloce e il dottore mi redarguì.

"Oh, sì," gongolò Andrej. "Grazie, Andrej. Grazie che mi stai salvando le chiappe," parlò mimando la mia voce. "Non c'è di che, Mary. Dovere, sei parte della famiglia."

Sorrisi a discapito del dolore e chiusi gli occhi.

"Ti sono riconoscente, Andrej, molto più di quello che credi." Grugnii, perché il dottore aveva iniziato a mettere i punti sulla ferita e bruciavano peggio di un tizzone ardente. "Ma vorrei sapere dove si trova mio marito."

Andrej passò delle garze al medico e sbuffò.

"Non credo tu voglia saperlo."

Mi allarmai.

Promessa |THE NY RUSSIAN MAFIA #1Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora