Capitolo 30: 𝒍'𝑨𝒅𝒐𝒓𝒂𝒛𝒊𝒐𝒏𝒆 [1/2].

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La domenica sedici mi svegliai controvoglia. Sapere di dover andare all'Adorazione era un dolore atroce al petto. Ogni mese da anni, provavo la stessa sensazione.

In momenti come quello, invidiai le persone nate in altre religioni. Almeno a loro era concesso scegliere se andare alle loro cerimonie.

Stando a quello che mi era stato insegnato alla Katheìo, l'Adorazione era una sorta di "copia e incolla" di altri riti religiosi, appartenenti a religioni diverse. I primi neomida avevano, infatti, cercato di rimanere nascosti ed evitare persecuzioni. Per farlo, avevano trasformato i loro riti per renderli più simili a quelli della religione dominante nei paesi in cui vivevano. In Italia e le altre zone cristiane, ad esempio, l'Adorazione era praticata in un'enorme edificio, che noi chiamavamo cattedrale, che era identico a una chiesa; e la cerimonia in sé non era altro che una messa riproposta in chiave neomida. In Giappone, invece, aveva l'aspetto di un rito shintoista, solo che i neomida non rivolgevano le loro preghiere ai kami ma al Protettore.

La Cattedrale Santa Elisa di Milano aveva l'aspetto di una normale chiesa in stile gotico. Era stata edificata nel quattordicesimo secolo, in nome di una neomida che aveva salvato la comunità neomida milanese dalle persecuzioni religiose di quel periodo. Alla Katheìo mi fecero studiare tutta la storia della cattedrale, ma uno degli unici dettagli che ricordo era il bombardamento da parte degli inglesi durante la seconda guerra mondiale che aveva danneggiato una delle due torri. La torre era resistita a fatica, e secondo i neomida il Protettore aveva ascoltato le loro preghiere e li aveva protetti. In un bombardamento successivo, i vetri del rosone, che ritraevano l'Ascesa del Protettore, erano caduti e dovettero essere ricreati. La scena era la stessa: il Protettore continuava ad ascendere sui neomida che varcavano la soglia della cattedrale.

Ogni finestra della chiesa ritraeva un evento importante per la nostra comunità. La mia preferita, quella più macabra, mostrava i roghi di Londra. Nel 1603, quasi cento neomida, accusati di stregoneria, furono bruciati vivi. Il momento era raffigurato nelle vetrate dietro l'altare. Un monito per tutti noi.

Era quello il futuro che ci aspettava se avessimo rivelato al mondo la nostra esistenza.

Seduta nella macchina di mia madre, stavo tenendo a fatica gli occhi aperti. Ginevra e Jackson erano nei posti dietro di me, entrambi con sguardi assonnati. Mia madre aveva insistito che andassimo con lei. «Così inquiniamo meno» era stata la sua giustificazione. Durante il viaggio non parlammo, ognuno perso nei propri pensieri o ancora addormentato.

Attraverso lo specchietto retrovisore, lanciai uno sguardo a Ginevra. Era tranquilla, lo sguardo puntato sulla strada e una cuffia inserita nell'orecchio sinistro. Dall'espressione annoiata che aveva in volto, mi sembrò tranquilla. Mi immaginai come avrebbe reagito se le avessi parlato del matrimonio. Sicuramente l'avrei sconcertata. Ma sapevo che non potevo continuare a rimandare quel momento.

La cattedrale S. Elisa non si trovava in centro a Milano, bensì in una zona poco conosciuta in cui per lo più vivevano neomida. L'edificio torreggiava tra i palazzi moderni a otto piani, superandoli di molti metri. Solo le due torri frontali arrivavano quasi a cinquanta metri di altezza, superando di un po' la cappella alla fine della navata centrale.

Mia madre entrò nel parcheggio che dava sull'entrata principale. Osservai le auto moderne presenti, pensando che rovinassero l'atmosfera creata dalla gigantesca cattedrale. Nonostante fossimo in anticipo di mezz'ora (un neomida doveva essere sempre in anticipo), i posti liberi erano i più distanti dall'entrata e già stavano terminando.

Anche se frequentavo la cattedrale da quando ero piccola, non avevo mai smesso di ammirarla con meraviglia.

Scesi dall'auto e alzai lo sguardo per fissarne la maestosità.

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