4. Dottor Murdock

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𝑳𝒂𝒏𝒂

C'era sempre una sensazione particolare a pizzicarmi i gangli neuronali nel varcare la soglia della porta d'entrata dell'ospedale a fine giornata, quando il sole spento di Londra era già andato a dormire da un po' e la maggior parte del personale medico, così come le persone nelle sale d'attesa, camminava in direzione opposta alla mia.

Una sensazione fatta di solitudine disciolta in un mondo intento a girare e ancora pieno di persone, vivida di malinconia e anche della sublimità di sentirsi una pura nullità di fronte all'incessante passaggio del tempo. Era il termine di una giornata che doveva ancora iniziare, l'inizio della fine, l'incapacità di far tornare in mente un ricordo la cui percezione viene richiamata da un sapore o da un profumo.

Forse era il fatto che ogni stanza dell'edificio sembrava svuotarsi, che le persone che riempivano i corridoi durante il giorno, in attesa di controlli o risultati, se ne tornavano a casa, e non c'era bisogno della stessa quantità di infermieri e medici che invece animavano il via vai di gente durante il giorno, perché tutto assumeva un'aria più tranquilla.

Persino il pronto soccorso si calmava dopo ore di emergenze, ma nonostante qualche falso allarme di persone ancora ad attendere il proprio turno, la quiete si diramava tra le pareti come muffa pungente e l'oscurità liberava un sinistro silenzio tra le mattonelle bianche e le reception dei reparti vuote.

Eppure, nonostante lavorare di giorno richiedesse il doppio della concentrazione, sapevo che nessuna notte di guardia sarebbe stata tranquilla, quantomeno per me. Perché non c'era possibilità in vista che potessi mettermi cinque minuti seduta nella sala medici a prendere un caffè o che la dottoressa Collins potesse distrarsi per qualche secondo e concedermi una pausa per sgranchire le gambe; la notte in ospedale era fatta per testare la mia pazienza e la mia capacità di restare concentrata. In fondo, ero pur sempre una specializzanda.

E forse vi starete chiedendo con quale coraggio qualcuno possa lasciarsi opprimere in quel modo, come possa essere possibile che delle persone spinte fino allo stremo delle loro forze e oltre possano poi ritrovarsi ad aiutare gli altri. In effetti, non c'era mai stato nulla di normale nello sfruttare dei ragazzi reduci da anni di studio in mansioni futili, così come risultava decisamente sadico costringerli a dormire meno del necessario e chiamarli a rispondere costantemente alle responsabilità del proprio lavoro.

Diventare medico non era una cosa per tutti, perché si rischiava veramente di impazzire tra quelle quattro mura, istigando persino alla violenza quelle poche persone dall'animo tollerante come il mio. Ero stata in effetti così tanto messa alla prova, sia dalla Collins che da Murdock, che mi ero ormai rassegnata all'idea che le cose non sarebbero cambiate tanto presto, non finché non sarei arrivata almeno al terzo anno e sarei stata in grado di avere abbastanza esperienza alle spalle da essere rispettata.

Ma forse era proprio questo che il primo anno di specializzazione avrebbe dovuto insegnarmi: imparare a essere l'ultima ruota del carro. Perché la passione, la voglia di fare, l'emozione di buttarsi a capofitto in tutto ciò intorno a cui la mia intera vita si fosse evoluta mi costringeva a sopportare senza battere ciglio e anche se ancora mi chiedevo come io, esaurita da tutta quella situazione, sarei mai stata in grado di fare qualcosa per qualcuno, sapevo che la rabbia, la repressione, il ruolo di impotenza che ricoprivo mi rendevano in un qualche modo umana.

Avevo quindi deciso di trarre da tutta quella situazione un insegnamento differente da quello che gli spocchiosi figli di papà come Eden Spencer si portavano dietro, credendo che fare la gavetta e il ruffianare medici ai vertici superiori fossero le giuste modalità per fare carriera, perché, in fondo, mi stavo ancora formando e se c'era una cosa che avevo compreso era che io ero il centro di un bel niente.

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