7. Cuore rotto

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𝑳𝒂𝒏𝒂

L'ospedale era per me da sempre un luogo sacro. Lo era stato da quando per la prima volta da bambina avevo varcato la soglia d'entrata del pronto soccorso con un febbrone scottante per cui ero stata poi in seguito ricoverata. Nulla di preoccupante, ma era la prima esperienza di malattia che ricordavo ancora vividamente.

Mi ero ritrovata a cinque anni a osservare l'ospedale dall'interno, guardando oltre lo spiraglio della porta della mia camera da letto come se fosse stato un televisore. E così avevo avuto un primo assaggio del difficoltoso significato che assumeva la vita nelle sue sfaccettature più dolorose, imparando a riconoscere i pazienti e distinguendo il personale medico, assaporando con gli occhi le loro espressioni: un miscuglio di fasi e momenti di cicli vitali che assimilati tutti insieme regalavano una strana sensazione di sublimità. La magnificenza del percorso vitale e la paura di cosa significasse perdere la capacità di sentire a stretto contrasto tra loro in un valzer che seguiva le note di un monitor intento a tracciare i battiti. L'ospedale mi era da subito sembrato una danza macabra in cui morte e vita coordinavano i passi.

La febbre si era rivelata semplice influenza e i miei giorni in ospedale non erano stati più di tre, ma con un padre medico e una madre sempre attenta a tutto come la mia, era stato quasi necessario rinchiudermi in quella gabbia. Eppure, per me, anche a quella tenera età era sembrato tutto fuorché un posto da cui scappare. Sapevo che ero lì perché avevo bisogno di aiuto da parte del personale medico.

Mi sembrava per questo assurdo che il signor James del reparto di geriatria fosse stato in grado di ottenere una tale disponibilità da parte non solo del primario, ma anche del direttore generale del Saint Mary Hospital. Era inimmaginabile che solo qualche piano più sopra ci fossero persone che si trascinavano a stento ancora in vita, legate ai macchinari della terapia intensiva, e che lì, in quella sala d'attesa dove la caffetteria affacciava con la sua immensa lista di dolci e bevande analcoliche, invece si stesse festeggiando come se quel luogo non era stato consacrato dalla tacita benedizione della morte.

Questa era una delle ragioni per cui avrei preferito restarmene a casa invece di essere costretta da Genesis e Carter a preparami; purtroppo non mi era rimasta poi molta scelta quando entrambi mi avevano letteralmente trascinata nella macchina del biondino per costringermi a fare il terzo incomodo nella loro serata di volontariato. Ma ora che vedevo la sala animata da luci vivaci e persone provenienti da ogni reparto, con le dovute accuratezze e accertamenti, mi sembrava assurdo che avessi potuto credere che liberare un po' di gioia in quel posto, che negli ultimi giorni non aveva fatto altro che buttarmi giù, potesse in un qualche modo essere una scelta sbagliata.

La specializzazione stava facendo svanire tra le mie mani l'unico dei ricordi felici in ospedale a cui mi ero sempre aggrappata: quello di quando ero bambina. Mi era successo poi di vederlo in situazioni più spiacevoli, come capita quasi a tutti, e il fatto che gli ultimi giorni mi avevano resa ulteriormente rigida riguardo l'ambiente erano forse una buona motivazione per giustificare la sorpresa nel sentire una sensazione piacevole di casa quando mi fermai a osservare il signor James perso in quella mischia di persone. Era contento e questa era forse la cosa che molte persone in quell'ambito dimenticavano: la felicità sa essere terapeutica.

Non era comunque come un compleanno per bambini e non aveva la tipica aria festaiola a cui ero abituata io, c'erano solo persone che all'apparenza si portavano dietro una lunga serie di storie da raccontare. Alcuni erano miei pazienti, altri non li avevo nemmeno mai visti, c'erano alcuni membri del personale medico, ma sapere che c'era un posto anche per Noah e gli altri bambini intenti a giocare in fondo alla sala mi rese immediatamente consapevole del fatto che l'ospedale non era solo un edificio pieno di contrasti come morte e vita, ma che era abitato costantemente da una famiglia che si sosteneva a vicenda e questo io lo avevo percepito sulla mia pelle, durante i miei miseri cinque anni di vita, ma mai come in quel momento mi era stato tanto chiaro.

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