XV: Io e l'ombra mia

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Mi è avvenuto più volte, svegliandomi nel cuor della notte (la notte, in questo caso, non dimostra veramente d'aver cuore), mi è avvenuto di provare al bujo, nel silenzio, una strana meraviglia, uno strano impaccio al ricordo di qualche cosa fatta durante il giorno, alla luce, senz'abbadarci; e ho domandato allora a me stesso se, a determinar le nostre azioni, non concorrano anche i colori, la vista delle cose circostanti, il vario frastuono della vita. Ma sì, senza dubbio; e chi sa quant'altre cose! Non viviamo noi, secondo il signor Anselmo, in relazione con l'universo? Ora sta a vedere quante sciocchezze questo maledetto universo ci fa commettere, di cui poi chiamiamo responsabile la misera coscienza nostra, tirata da forze esterne, abbagliata da una luce che è fuor di lei. E, all'incontro, quante deliberazioni prese, quanti disegni architettati, quanti espedienti macchinati durante la notte non appajono poi vani e non crollano e non sfumano alla luce del giorno? Com'altro è il giorno, altro la notte, così forse una cosa siamo noi di giorno, altra di notte: miserabilissima cosa, ahimè, così di notte come di giorno.

So che, aprendo dopo quaranta giorni le finestre della mia camera, io non provai alcuna gioja nel riveder la luce. Il ricordo di ciò che avevo fatto in quei giorni al bujo me la offuscò orribilmente. Tutte le ragioni e le scuse e le persuasioni che in quel bujo avevano avuto il loro peso e il loro valore, non ne ebbero più alcuno, appena spalancate le finestre, o ne ebbero un altro al tutto opposto. E invano quel povero me che per tanto tempo se n'era stato con le finestre chiuse e aveva fatto di tutto per alleviarsi la noja smaniosa della prigionia, ora – timido come un cane bastonato – andava appresso a quell'altro me che aveva aperte le finestre e si destava alla luce del giorno, accigliato, severo, impetuoso; invano cercava di stornarlo dai foschi pensieri, inducendolo a compiacersi piuttosto, dinanzi allo specchio, del buon esito dell'operazione e della barba ricresciuta e anche del pallore che in qualche modo m'ingentiliva l'aspetto.

«Imbecille, che hai fatto? che hai fatto?»

Che avevo fatto? Niente, siamo giusti! Avevo fatto all'amore. Al bujo – era colpa mia? – non avevo veduto più ostacoli, e avevo perduto il ritegno che m'ero imposto. Papiano voleva togliermi Adriana; la signorina Caporale me l'aveva data, me l'aveva fatta sedere accanto, e s'era buscato un pugno sulla bocca, poverina; io soffrivo, e – naturalmente – per quelle sofferenze credevo com'ogni altro sciagurato (leggi uomo) d'aver diritto a un compenso, e – poiché l'avevo allato – me l'ero preso; lì si facevano gli esperimenti della morte, e Adriana, accanto a me, era la vita, la vita che aspetta un bacio per schiudersi alla gioja; ora Manuel Bernaldez aveva baciato al bujo la sua Pepita, e allora anch'io...

— Ah!

Mi buttai su la poltrona, con le mani su la faccia. Mi sentivo fremere le labbra al ricordo di quel bacio. Adriana! Adriana! Che speranze le avevo acceso in cuore con quel bacio? Mia sposa, è vero? Aperte le finestre, festa per tutti!

Rimasi, non so per quanto tempo, lì su quella poltrona, a pensare, ora con gli occhi sbarrati, ora restringendomi tutto in me, rabbiosamente, come per schermirmi da un fitto spasimo interno. Vedevo finalmente: vedevo in tutta la sua crudezza la frode della mia illusione: che cos'era in fondo ciò che m'era sembrata la più grande delle fortune, nella prima ebbrezza della mia liberazione.

Avevo già sperimentato come la mia libertà, che a principio m'era parsa senza limiti, ne avesse purtroppo nella scarsezza del mio denaro; poi m'ero anche accorto ch'essa più propriamente avrebbe potuto chiamarsi solitudine e noja, e che mi condannava a una terribile pena: quella della compagnia di me stesso; mi ero allora accostato agli altri; ma il proponimento di guardarmi bene dal riallacciare, foss'anche debolissimamente, le fila recise, a che era valso? Ecco: s'erano riallacciate da sé, quelle fila; e la vita, per quanto io, già in guardia, mi fossi opposto, la vita mi aveva trascinato, con la sua foga irresistibile: la vita che non era più per me. Ah, ora me n'accorgevo veramente, ora che non potevo più con vani pretesti, con infingimenti quasi puerili, con pietose, meschinissime scuse impedirmi di assumer coscienza del mio sentimento per Adriana, attenuare il valore delle mie intenzioni, delle mie parole, de' miei atti. Troppe cose, senza parlare, le avevo detto, stringendole la mano, inducendola a intrecciar con le mie le sue dita; e un bacio, un bacio infine aveva suggellato il nostro amore. Ora, come risponder coi fatti alla promessa? Potevo far mia Adriana? Ma nella gora del molino, là alla Stìa, ci avevano buttato me quelle due buone donne, Romilda e la vedova Pescatore; non ci s'eran mica buttate loro! E libera dunque era rimasta lei, mia moglie; non io, che m'ero acconciato a fare il morto, lusingandomi di poter diventare un altro uomo, vivere un'altra vita. Un altr'uomo, sì, ma a patto di non far nulla. E che uomo dunque? Un'ombra d'uomo! E che vita? Finché m'ero contentato di star chiuso in me e di veder vivere gli altri, sì, avevo potuto bene o male salvar l'illusione ch'io stessi vivendo un'altra vita; ma ora che a questa m'ero accostato fino a cogliere un bacio da due care labbra, ecco, mi toccava a ritrarmene inorridito, come se avessi baciato Adriana con le labbra d'un morto, d'un morto che non poteva rivivere per lei! Labbra mercenarie, sì, avrei potuto baciarne; ma che sapor di vita in quelle labbra? Oh, se Adriana, conoscendo il mio strano caso... Lei? No... no... che! neanche a pensarci! Lei, così pura, così timida... Ma se pur l'amore fosse stato in lei più forte di tutto, più forte d'ogni riguardo sociale... ah povera Adriana, e come avrei potuto io chiuderla con me nel vuoto della mia sorte, farla compagna d'un uomo che non poteva in alcun modo dichiararsi e provarsi vivo? Che fare? che fare?

Il fu Mattia PascalWhere stories live. Discover now