13. Capitolo XII - Night

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Angolo autrice: Scusatemi tanto per il ritardo! La scuola mi sta uccidendo, ecco a voi il nuovo capitolo!

Un calcio: la sedia si ribaltò e cadde all’indietro, producendo un sinistro tonfo che si spense dopo parecchi echi rimbalzati per la stanza vuota.
Il secondo calcio colpì il letto alla sua sinistra: il lenzuolo bianco – come quello che ricopriva il corpo candido di Daphne – gli cadde sulla gamba, questa volta producendo un fruscio delicato, come il gemito che uscì dalle labbra della bionda alla sua destra; Theodore si fiondò versò la ragazza, afferrando di slancio la sua mano e stringendosela al petto. Daphne si mosse, ma non aprì gli occhi: dalla camicia da notte, sbottonata appena per lasciare intravedere la valle dei seni, proprio sulla gola – che sembrava muoversi solo per consentirle di respirare –  una S marchiata a fuoco brillava come sangue vivo sulla carne cerea. Theodore voleva morire.
Daphne poteva essere stronza e menefreghista quanto voleva, ma non meritava tutto quello; non meritava il dolore che stava subendo e nemmeno quella sorella – che tutti credevano “migliore” – così gelosa da non provare a salvargli la vita. Daphne era in pericolo di vita e nessuno poteva aiutarla, nemmeno lui, che in quel momento avrebbe sacrificato tutto pur di vederla viva e… lì, con lui.  Non poteva fare niente, aveva le mani legate e Daphne, intanto, moriva lentamente in quel letto immacolato.
La porta dell’infermeria si aprì, rivelando il corpo esile e piccolo di Astoria, avvolta ancora nella divisa scolastica, ma accompagnatrice di una nuvola nera che non l’avrebbe lasciata, che continuava ad aleggiare attorno al suo corpo come una manna.
Stronza.
« Le donerò il mio sangue ad una condizione » bisbigliò, camminando a passi leggeri verso di lui e guardandolo con gli occhi verdi grandi e dolci, ingannatori: come poteva una persona rivelarsi il contrario di quello che si pensava? Theodore credeva di conoscere Astoria e Daphne, ma si era sbagliato. Si era sempre sbagliato.
« Cosa vuoi? » mormorò Theo, alzando gli occhi velati e fissandola senza vederla veramente: portava i capelli bruni raccolti in una crocchia disordinata e ora era a pochi passi da lui: poteva sentire il suo calore, il suo respiro.
Theodore tremò, consapevole di essere nelle sue mani.
« Annullerai il contratto matrimoniale con lei e chiederai ai miei genitori la mia mano, come sarebbe dovuto essere fin dall’inizio » disse Astoria, digrignando i denti nel constatare quanto si fossero irrigidite le spalle del ragazzo.
Era davvero così difficile stare con lei? Lui le ripeteva costantemente quanto l’amasse, ma non le aveva mai promesso di lasciare Daphne per lei… perché? Cosa aveva sua sorella che lei non possedeva? Nemmeno i filtri d’amore più potenti al mondo erano capaci di cancellare l’amore che Theodore provava per quella sciocca ragazza: con quelli, Theodore era rimasto sospeso tra loro due, senza saper scegliere.
Sua sorella era una sciocca a pensare che si sarebbe arresa così facilmente: per anni era stata seconda in tutto, seconda a lei, ma ora le cose sarebbero cambiate… ora aveva un asso nella manica che nemmeno Daphne Greengrass avrebbe potuto contrastare… e ce l’aveva voluto lei. Cosa credeva, che dopo aver visto l’indecisione di Theodore si sarebbe fermata? Non era così stupida e sempliciona, questo avrebbe dovuto saperlo. Era sua sorella, dopotutto.
Daphne davvero aveva creduto che si sarebbe limitata ai filtri d’amore e non aveva fatto parola con nessuno di tutto ciò. E, naturalmente, si era ritorto contro lei stessa… sia l’amore che provava per la sorella sia la scelta del silenzio.
« Voglio il voto infrangibile, Theodore Nott e avrai salva la vita di mia sorella » sussurrò Astoria, inginocchiandosi ai suoi piedi e guardandolo dal basso: quella volta, il veleno, era visibile tra quelle iridi.
Quella volta, il veleno, lo vedeva camminare sotto pelle.
Theodore rimase immobile, combattuto tra la voglia di urlare dalla frustrazione o ucciderla, perché sentiva che in lei non c’era nulla della ragazzina di cui si era innamorato: dov’era la timida e dolce Astoria? Cosa ne aveva fatto quella donna, di lei? A malapena la riconosceva sotto quelle spoglie e la odiava. Odiava il suo sguardo consapevole e maligno, il suo sorrisetto vittorioso e carico di aspettative.
La odiava e la voglia di ucciderla saliva rapidamente dentro di lui, come un fiume in piena, come un traverso di bile.
Theodore alzò gli occhi scuri sulla sua figura esile, accarezzando lo sterno magro e le spalle esili, il volto pallido e le iridi chiare: lei gli strinse la spalla tra le dita, scendendo lungo il braccio e tracciando ghirigori immaginari sul palmo aperto.
Theodore respirò a fatica.
« Ora! »
Astoria gli alzò le maniche della camicia, affondando le dita nell’avambraccio nudo e graffiandolo appena: Terence Higgs, con i suoi lineamenti duri e da mastino, comparve nell’esatto momento in cui la ragazza pronunciò quella frase, puntando la bacchetta contro i loro bracci uniti. I suoi capelli castani erano ritti e radi sul capo grosso, mentre gli occhi neri – piccoli e vicini – lo guardavano divertiti.
« Prometti tu, Theodore Nott, di annullare il contratto matrimoniale con Daphne Greengrass e chiedere la mano di Astoria Greengrass? E, inoltre, prometti di non dire nulla di quello che Astoria ti riferirà e di questo voto?  » pronunciò solennemente, con la sua voce roca e bassa, quasi simile ad una condanna, ad una carezza fatta con la carta vetrata.
Gli occhi di Theodore si puntarono sul volto di Daphne e questa volta decise che aveva fatto abbastanza. Aveva sbagliato tutto e almeno quello glielo doveva; voltò di scatto il volto verso Astoria, che storse le labbra in un sorriso di scherno: quella volta aveva vinto lei.
« Prometto »
Lingue di fuoco suggellarono la sua rovina.
Due labbra si posarono sulle sue, ma Theo non sentì altro che gelo: due cubetti di ghiaccio avevano accarezzato lentamente la sua bocca e ora sgorgava veleno lungo la sua gola. Era suo. Aveva vinto lei, come aveva desiderato fin da bambina.
Si era reso conto troppo tardi che per Astoria era solo un premio, qualcosa da sottrarre a sua sorella, un giocattolo da tenere stretto al petto… e per quanto Daphne fosse fredda ed egoista, non si sarebbe mai abbassata a tanto. Non ne aveva bisogno. Astoria lo sapeva, sapeva tutto quello e aveva giocato bene le sue carte, ma Theodore sapeva che c’erano troppe coincidenze: Daphne era stata colpita fino a farla star male e Astoria era comparsa con quel patto.
E capì.
Theodore sgranò gli occhi, trattenendo il fiato e alzando allibito lo sguardo su di lei.
Lingue di fuoco suggellarono il suo silenzio.
« Sei sempre stata tu… tu, sei tu la traditrice » mormorò, raggelando nel constatare che lei non si affrettava a dissentire, ma sorrideva come se la sua stupidità e tardività la divertisse.
« La vita va’ così, Theodore. Niente, niente è come sembra, ma almeno abbi la decenza di ringraziarmi: ti sto salvando il culo » sibilò, indietreggiando fino ad avvicinarsi all’uscita dell’infermeria.
« Domani mattina donerò il sangue a Daphne… fa bei sogni, amore » finì, uscendo insieme ad Higgs e lasciandolo solo.
Che aveva fatto?
Che aveva fatto?
I suoi amici erano in pericolo e lui non poteva nemmeno dire loro chi era la serpe in seno: Daphne era salva, ma niente avrebbe impedito ad Astoria di ucciderla; portarla in fin di vita non era stato così doloroso per lei, quindi – Theodore ne era sicuro – non ci avrebbe pensato due volte ad ucciderla, se ce ne fosse stato bisogno.
« Che ho fatto? » mormorò, scompigliandosi furiosamente i capelli e accasciandosi sul corpo inanime di Daphne.
Lingue di fuoco avevano suggellato la morte dei suoi amici.
 
Dall’altra parte del castello, invece, in quella notte di Natale – che aveva portato più di un dolore e più di una gioia – due occhi si fissavano nel buio di una stanza arredata verde-argento.
Due respiri, in quell’attimo, invece di suggellare morte, stavano diventando tutt’uno per suggellare promesse che nessuno dei due aveva intenzione di pronunciare: i loro sguardi incrociati dicevano tutto e anche le mani di lui, posate sul ciondolo che pendeva sul materasso morbido insieme ai capelli bruni e ricci di lei.
Più di una stella cadente cadde, illuminando i loro volti a pochi centimetri l’uno dall’altro: i loro nasi si sfiorarono e le loro labbra si toccarono con delicatezza.
Hermione trattenne con forza il respiro, socchiudendo gli occhi e lasciando che Draco sprofondasse le dita nei suoi capelli, spingendo con forza la catenina contro di sé e costringendola ad avvicinarsi ancora di più alle sue labbra.
La sua lingua le accarezzò il palato ed Hermione, in quel preciso istante, capì che non avrebbe mai dimenticato il suo sapore; era tutto lì, sulle sue labbra, nella sua bocca, giù per la gola sino ad arrivare nelle ossa e spezzarle. Fino ad arrivare nelle ossa e ricostruirle.
Sentiva il suo sapore di menta dappertutto e il cuore le sussultò in gola quando il suo corpo si incastrò al proprio: non combaciavano per niente, ma si completavano. 
Le loro membra quasi combattevano per legarsi, ma una volta riuscite, Hermione, sapeva che sarebbero stati in slegabili.
Tremò.
La mano di Draco lasciò la catenina e le toccò lo sterno: la staticità del suo cuore era incredibile, come il cambiamento repentino e il battito accelerato; lui le morse la bocca, facendo sprofondare i denti nella carne sensibile del labbro inferiore ed Hermione gemette. Per il dolore. Perché lui… perché lui le stava dimostrando che non gli importava.
Draco le stava dimostrando che il suo sangue non lo disgustava: si stava sporcando, si stava sporcando di lei.
Gemette. Per il dolore. Perché Draco era sporco di lei. E si sentì morire. Si sentì rinascere.  
Tremò ancora e lui la strinse con più forza: la stessa forza che stava usando per renderla viva ancora una volta; Hermione non si era mai sentita in quel modo e allora capì: non poteva considerarsi una fenice, perché lei non stava rinascendo dalle sue ceneri, ma stava bruciando e basta. Lei era un fuoco che ora ardeva vivo. Stava danzando, stava distruggendo se stessa, ma si sentiva maledettamente viva.
E allora si sentì pronta: con i polpastrelli gli sfiorò il braccio, lasciando che le dita scorressero lungo l’avambraccio coperto. Draco sussultò e lei spinse con più forza l’indice contro quel tatuaggio; Hermione sapeva che era lì, lo sentiva, ma non si lasciò scoraggiare.
Il suo sangue e quel teschio erano tutto ciò che li aveva sempre divisi: il diverso e la paura, che si sa’… non vanno mai a braccetto. Ma era Natale e ora quel sangue sporcava le sue labbra e quelle dita stringevano quel teschio, mettendo da parte ogni rancore e lasciando che il passato rimanesse passato.
« Ti sento » bisbigliò Draco, allontanandosi dalle sue labbra e respirando a fatica.
Hermione sapeva che sentiva le sue dita, il suo calore e anche il fatto che a lei non importava. Non più. Ora quando lui sfiorava la scritta “Mezzosangue” non la sentiva più bruciare e ora sapeva che poteva andare oltre, ora che lo sentiva interamente, completamente, indissolubilmente dentro lei.
Questa volta fu lei a baciarlo e tolse il fiato ad entrambi: si lanciò contro di lui e fece coincidere le loro labbra in un lungo e agonioso bacio.
E poi… bruciarono, letteralmente.
Il letto a baldacchino e i loro corpi furono avvolti dalle fiamme, ma i loro respiri erano troppo presi l’uno dall’altro per accorgersene: Hermione sprigionò una vampata di fuoco e le lingue avvolsero dolcemente anche il corpo di Draco; continuarono a baciarsi, ma questa volta c’era qualcosa nei loro movimenti che rendeva ogni cosa diversa.
I movimenti veloci, frenetici, violenti, come se toccarsi ne dipendesse la loro stessa vita: Draco le strappò i bottoni della camicia, mordendole con forza la spalla. Le loro mani ora non si accarezzavano, ma si stringevano, si graffiavano e rimanevano la propria impronta ad ogni lembo di pelle superata.
Hermione gemette e lui le fu sopra con un movimento veloce delle gambe: la sua lingua non lasciava quella di lei, mentre le sue mani erano dappertutto. Prima sul seno, poi lungo le spalle in un brivido lascivo che le fece tremare le membra e poi sulle gambe nude. I collant erano stati strappati e giacevano sul pavimento, accanto le loro scarpe, ora la camicia di lui, poi la gonna di lei.
La loro pelle si strofinava l’una contro l’altra, si arrossava e poi le fiamme sfiorarono il soffitto, annerendolo: completamente nudi e privi di ogni inibizione, di ogni freno e pensiero che potesse frenare la lussuria che bruciava qualsiasi cosa, Draco penetrò secco in lei.
La mano di Hermione si poggiò sulla sua guancia e le sue dita tirarono un ciuffo di capelli biondo platino: tremò ancora una volta e girò il capo verso l’alto, staccandosi da quel bacio che era durato troppo, troppo poco o troppo e basta.
Un'altra spinta.
I denti di Draco penetrarono nella sua spalla e strisciarono dolorosamente fino allo sterno, fermandosi dove il suo cuore batteva martellante nel petto. La mano destra di lui le strinse un fianco, l’altra intrecciò le dita con le sue, così strette da farle male, ma era un dolore dolce. Hermione l’avrebbe sopportato per sempre. Per quanto, per loro, la parola sempre avesse un valore preciso.
Un’altra spinta e tutto divenne sempre più veloce, sempre più affannoso: le fiamme vorticarono, diventarono un turbine, bruciarono tutto, bruciarono loro. Draco gemette, Hermione si aggrappò con forza alle sue spalle e questa volta i loro petti combaciavano, erano tutt’uno.
Hermione urlò. Lo sentiva così dentro, così in profondità, da non sentire nient’altro che lui. Draco era dentro di lei e la riempiva completamente, indissolubilmente, fino in fondo, fino al punto di rottura.
« Anche io. Anche io ti sento » sussurrò Hermione in risposta, prima di inarcare la schiena e stringere con forza le gambe.
Strizzò gli occhi e si sentì spezzare. Era sua. Era suo.
Ora, l’uno dentro l’altro ed Hermione non aveva sentito niente di più incredibile.
« Buon Natale » disse poi, baciandogli il naso e poggiando il capo sul suo petto: quello era stato il suo regalo, ma non si sarebbe mai aspettata nulla del genere; quando si guardò attorno del letto a baldacchino erano rimaste solo ceneri e lenzuola bruciate.
Le fiamme avevano bruciato anche loro, ma di un fuoco di cui entrambi non avrebbero mai fatto a meno.
E, mentre ciocchi ardenti lasciavano segni indicibili sulla loro pelle, mentre il fuoco scoppiettava allegro in quella stanza ignara, immobile e ferito, Harry Potter, dalla saletta in comune, strinse gli occhi e la bocca in una smorfia, cercando di trattenersi dal distruggere tutto quello che lo circondava.
Il cuore, sentiva il cuore un deserto così arido da mettergli i brividi: niente, niente batteva e tutto si ribatteva, in cerca di una via d’uscita.
Non c’era bisogno che andasse a controllare per sapere quello che stava succedendo al piano di sopra, ma non aveva nemmeno la forza di salire e riempire di pugni quel maledetto, che gli stava portando via la luce. Malfoy aveva vinto, incredibile ma vero.
Aveva vinto su Ron e anche su di lui, distruggendolo la notte di Natale come ogni notte prima di quella, ma ora la goccia aveva fatto traboccare la pozione: si era preso tutto e a lui non era rimasto niente.
« Lui è fatto così… non rimane assolutamente nulla al suo passaggio »
Harry non si era nemmeno accorto che Pansy se ne stava rannicchiata sulle scale che portavano verso la stanza di Draco: aveva le ginocchia portate al petto e i capelli che le coprivano il volto; sembrava che gli avesse letto nel pensiero, perché aveva quasi mormorato quello che lui stava pensando. Ma cosa aveva portato via a Pansy? Oltre lei stessa? In passato l’aveva vista girare attorno a Malfoy come se lei fosse la terra e lui il suo asse, ovunque andasse – alla fine – Pansy girava sempre attorno a lui.
Non avrebbe mai creduto che un Serpeverde sarebbe arrivato ad amare fino al punto da annullarsi, ma la Parkinson ne era la prova.
« Sei ridicola » bisbigliò Harry, togliendosi gli occhiali e passandosi – stanco, distrutto – una mano sugli occhi. Pansy sogghignò, poggiando il capo contro la pietra dura e fredda dove teneva poggiata anche la schiena.
« Buon Natale, Potter » rispose, lasciando che una sola e unica lacrima le solcasse il volto. La stessa lacrima che rigò la guancia di Harry, nascosto dall’avambraccio alzato e poggiato sulle ginocchia. Casa sua era diventata una terribile prigione di vetro e non poteva nemmeno scappare come un codardo.
Era costretto a rimanere lì, tra quelle mura, sotto lo sguardo di Pansy Parkinson e lo sfrigolio di quei gemiti al piano di sopra: a niente era servita la discrezione di Hermione e quella di Malfoy, gli occhi di Harry avevano visto bene i loro corpi sparire oltre quella porta e poi il silenzio. Quel silenzio che l’aveva ucciso.
« Sta zitta » mormorò Harry e Pansy scoppiò miseramente a ridere, rovesciando il capo verso di lui e guardandolo con i suoi occhi neri come la pece.
« Se la ragazza per cui hai sacrificato tutto, anche la possibilità di essere felice, si sta scopando il tuo peggior nemico… non sfogare le tue frustrazioni su di me, Potter! Siamo nella stessa e identica situazione di merda » sbottò Pansy, affondandosi le unghia nei palmi e guardandolo con astio.
« E no, maledizione, non voglio star zitta! » sibilò, alzandosi di scatto e spazzolandosi la polvere dalla gonna. I suoi mocassini non produssero nessun rumore sul pavimento e probabilmente per questo, prima, Harry non l’aveva sentita.
Stava per uscire dalla sala e lasciarlo solo, quando lui l’afferrò malamente per il braccio: strinse così forte da farla gemere e alzò lentamente lo sguardo solo per fulminarla. Pansy non si mosse di un millimetro e lui nemmeno.
I loro occhi sembravano creati apposta per odiarsi e quasi faceva male il modo in cui lo facevano. Lei non era l’unica ad essere insulsa, questo Harry l’aveva capito da un bel po’; condividevano lo stesso dramma, quasi la stessa vita e la ridicolicità in cui erano caduti entrambi era da odiare.
Pansy distolse lo sguardo e fissò il fuoco nel camino affievolirsi sempre di più, fino ad arrivare a spegnersi. Si morse con forza le labbra e ingoiò a vuoto. Anche loro si stavano spegnendo pian piano? Era la stessa fine che avrebbero fatto o si sarebbero riaccesi? Probabilmente quella era la condanna per chi amava troppo. Per chi amava e odiava con la stessa intensità, in egual modo, come se non ci fosse nessuna differenza.
« Guardami » bisbigliò Harry, aumentando la presa sul suo braccio e graffiandola lungo l’avambraccio. Quella era la punizione per chi annullava se stesso per amore, per chi si era già annullato per amore.
« Che vuoi da me, Potter? » domandò Pansy, esasperata, ricambiando lo sguardo e stringendo le labbra nel constatare che non c’era nessuna luce, ora, a rinfacciargli che quando si stava dalla parte del bene si viveva meglio. Per amore tutti diventavano uguali, buoni e cattivi, ricchi e poveri… tutti diventavano miserabili, nessuno escluso.
« Diventare meno umano » sussurrò Harry, guardandola dal basso con quel cipiglio che non si addiceva affatto al suo viso.
Pansy si abbassò lentamente su di lui e avvicinò la bocca sottile al suo orecchio: Harry rabbrividì e lei sogghignò « Lo diventerai sempre di più, Potter. Questo non ti uccide, ti svuota che è diverso » mormorò, infilando le dita nei suoi capelli neri e respirando con fatica.
« E diventerai sempre più miserabile, perché al peggio non c’è mai fine » bisbigliò infine, facendo per alzarsi da quella posizione, ma venendo bloccata dalla mano di Harry, che le strattonò il colletto della camicia.
« Siamo già alla fine, Parkinson… non te ne sei accorta? » sibilò, bloccando qualsiasi protesta o parola e fiondandosi sulle sue labbra: ma questa volta fu più dolce, meno divoratore; accarezzò lentamente la sua bocca e respirò a tratti, tirandole appena i capelli e trascinandola sul divano al suo fianco.
« Il peggio sono loro, ma la fine sei tu » disse a bassa voce, baciandola ancora e ancora.
Ancora e ancora, lentamente, dolcemente, con una tenerezza che a Pansy fece pensare qualcosa di fragile e prezioso, che viene maneggiato con calma e assoluta consapevolezza.
Harry Potter stava usando il suo corpo con la consapevolezza che era vuoto, con la calma e la minuzia, sapendo che essere miserabili insieme a qualcun altro… è molto meglio che essere miserabili soli e distruggersi senza trovare soluzione.
 

Io sono di legnoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora