Capitolo 16

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"Il dolore allorché è profondo e vero è un peso che non si sgrava mai dal cuore." William Shakespeare

"Merda!" sentii chiaramente qualcuno urlare, ma il coraggio di aprire gli occhi mi aveva del tutto abbandonata.

Ero paralizzata, ogni mio muscolo si era improvvisamente immobilizzato.
E come se non bastasse, immagini su immagini guizzarono in mezzo al caos infernale, nel quale i miei pensieri erano sprofondati dopo quel rumore assordante. Scossi il capo come per rispedire indietro i pezzi di ricordi che quel frastuono aveva ripescato dal passato. Quel passato recava con se dolore, profondo dolore. Tante volte mi ero chiesta come superare il dolore, come scavalcarlo e rimuoverlo totalmente dalla mia testa, dal mio cuore e dalla mia anima, ma nulla, nessuna risposta avevo trovato. Così cercavo di nascondermi, come quando da bambina giocavo a nascondino con Lucinda; eppure la Rose diciassettenne non era agile come la bambina di anni fa, la Rose adolescente era sempre in bilico e la maggior parte della volte falliva miseramente e si lasciava scovare e, a differenza di anni fa, non era Lucinda a trovarla, ma l'unico in grado di farle perdere il controllo: il dolore.
Non c'erano soluzioni e l'unica cosa da fare era bloccare ogni pensiero e aspettare che quel dolore passasse, senza trapassarmi l'anima.

"Ragazzi.. posso cagarmi addosso?" la voce tremante di Niall, sembrò scavalcare ogni mio pensiero.

Una risata familiare, mista alle altre, mi trascinò via dal caos della mia testa e riaprii gli occhi, ritrovandomi il viso di Liam a pochi centimetri. Le mie palpebre si chiusero e si aprirono velocemente e all'improvviso il macigno nello stomaco si frantumò, lasciando spazio ad una sensazione di gran sollievo. Non era morto: Liam era lì e stava ridendo. Liam era proprio accanto a me, il suo respiro era leggermente affannato, forse per lo spavento, ma la vita non aveva smesso di illuminare i suoi occhioni dolci.
Una donna sulla cinquantina si avvicinò al tavolo e, dal grembiule, supposi che fosse la proprietaria di quel bar. Lanciò uno sguardo di rimprovero a tutti e si avvicinò a Harry. L'espressione di dolore sul suo viso mi colse di sorpresa così mi affrettai a spostare lo sguardo verso la mano che il ragazzo aveva poggiato sulla spalla.

"Dimitri, ti conviene andarti a nascondere e non farti vedere per i prossimi cinquant'anni o giuro su Dio che quella dannata pistola te la infilo nel culo!" urlò Harry, alzandosi di scatto dalla sedia, ma fu bloccato da Christopher e dalla voce della donna che finalmente parlò: "Ragazzi, che diavolo vi dice il cervello?! Non potete fare questi giochi nel mio bar e ringraziate Dio che George non è qui altrimenti vi avrebbe sbattuto fuori a calci!" urlò anch'essa, stringendo i pugni.

Mi voltai, giusto in tempo per vedere un ragazzo che, dopo aver lasciato un qualcosa sul bancone, uscì di corsa dal locale. Probabilmente quello era il tizio che aveva sparato a Harry.

"Kelly, non è colpa nostra!" esclamò Drew, scuotendo appena il capo.

"Se quel fottuto coglione avesse posato quella dannata pistola, nessuno si sarebbe fatto male!" continuò Harry, stringendo appena i denti per via del dolore alla spalla. La chiazza rossa si era allargata così tanto che la sua mano, seppur grande, non riusciva a coprirla più.

"Purtroppo la mia ramanzina deve terminare qui, il locale sta per riempirsi" disse la donna per poi voltarsi verso la sala dove le poche persone che c'erano non sembravano affatto sconvolte da quello che era successo pochi minuti prima.
Come diavolo era possibile? A San Francisco una cosa del genere non sarebbe mai successa, nemmeno tra un milione di anni.

Roselynd, sei nel Bronx, questa gente vive di pane e pallottole, mi ricordò l'onnipresente vocina interiore.

"Harry, devi andare in ospedale" disse Christopher facendo scuotere il capo al riccio.

Hudson RiverDonde viven las historias. Descúbrelo ahora