Capitolo III: Di Jane Eyre e incontri ravvicinati del terzo tipo

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Erano le 7.46.

Mancavano nove minuti all'inizio delle lezioni, e dunque era arrivato in perfetto orario.

Certo, affaticato da una corsa di quasi un quarto d'ora per i vari vicoli della capitale, col fiato corto e con addosso una probabile puzza di lama. Ma era comunque in perfetto orario.

Si lanciò letteralmente verso la porta d'ingresso dell'asilo in cui avrebbe insegnato l'intero anno scolastico, e fu accolto da una stanza circolare non troppo grande dalle pareti di due colori diversi, separati orizzontalmente: a partire dal battiscopa, un terzo della parete era di un color verde acceso, da cui sbucavano dei fiorellini colorati disegnati dai discenti in probabilmente una delle varie attività proposte dai maestri e dalle maestre; i restanti due terzi fino al soffitto, e soffitto incluso, erano bianco ottico, ed erano praticamente immacolati, perché difficilmente un bambino riesce a raggiungere quell'altezza e disegnarvici sopra.

Al centro di questa circonferenza c'erano dei giochi tipici dei parchi all'aperto: due mini-scivoli, uno rosso e l'altro giallo, e una casetta viola dal tetto marrone (persino Manuel, che di abbinamenti ci capiva poco, capì che era tutto un'accozzaglia di colori accostati a caso), al cui interno ci stavano al massimo tre persone rannicchiate e molto vicine. Equidistanti l'una dall'altra, sul perimetro del cerchio c'erano quattro porte, che a partire da sinistra erano rossa, azzurra, viola e gialla, e il ragazzo notò subito che i bambini che gli camminavano davanti andando verso le aule avevano tutti dei grembiulini di colori diversi e che attraversavano una porta piuttosto che un'altra in base al colore del proprio grembiule.

Sinceramente non aveva idea di come si scegliesse quale bambino andasse dove, non aveva idea di come avvenisse il rito di iniziazione; sapeva solo che si trovava lì per plagiare delle giovani menti, ma non sapeva neppure in che aula andare e a chi rivolgersi.

In quel momento, tuttavia, gli importava ben poco. Tutto ciò che contava era che fosse in orario il suo primo giorno di lavoro e, con la consapevolezza di avercela fatta, si rilassò e si permise di rendersi conto di quanto effettivamente fosse stanco dopo la corsa contro il tempo.

-Buongiorno, sono qui, sono arrivato, giuro che so' en orario - disse prima di tutto, perché, morente o no, l'educazione veniva sempre prima di tutto. Magari poteva risparmiarsi l'ultima parte in dialetto, insomma, da un insegnante ci si aspetta la lingua nazionale pura, senza imperfezioni, e lui aveva cercato in tutti questi anni di migliorare sia la dizione sia il suo modo di parlare in italiano "standard". Persino quando usciva con gli amici cercava di evitare di dire troppe cose in dialetto, così da abituarsi a parlare solo italiano in qualunque circostanza.

Ma in quel momento era veramente cotto, era a tanto così da buttarsi per terra e rimanere lì dolorante e strisciante come una larva umana; quindi, si lasciò passare questa dimenticanza mentre cercava di non collassare appoggiandosi con le braccia sulle ginocchia.

-Mi scusi, posso chiederle chi è lei? - domandò una voce pacata.

Manuel alzò gli occhi dalla sua posizione e vide per prima cosa un bambino con indosso un grembiule rosso con un quadratino in alto a sinistra in cui era raffigurato uno scoiattolo altrettanto rosso, e di fianco a lui, a stringergli la mano, una donna dai capelli lisci chiari e dal sorriso gentile, con indosso un pantalone nero che scendeva largo con disegnate sopra delle fantasie, e una camicetta morbida color panna infilata dentro.

Immaginò fosse un'insegnante. O una rapitrice di bambini.

Probabilmente entrambe, ma realisticamente parlando c'erano più possibilità che fosse la prima.

-Buongiorno. Sono il nuovo maestro dell'asilo, mi chiamo Manuel Ferro, sono stato assunto una settimana fa - le disse con un sorriso, tendendole la mano per presentarsi.

In case time can't fix it, move the hands  (Simuel)Where stories live. Discover now