TRANSIZIONE

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-Capitolo 1-


Respiro affannato, luce che sfarfalla, il mio riflesso. Apro gli occhi, sono da solo, è desolante. Una minuscola stanza soffocante e angusta. Nessuna finestra, nessuna porta. Mi ritrovo in una piccola gabbia dall'atmosfera angosciante, quasi anonima. Vedo una carta da parati di un bianco ingiallito rovinato e pieno di muffa. Un soffitto a piastre bianche unite da una griglia di un viscido metallo grigio; deprimente. Davanti a me una piccola scrivania di un legno scadente dalle gambe gonfie per via dell'umidita con un minuscolo computer lento e rumoroso. Un pavimento di moquette grigio scuro pieno di impronte di scarpe che girano all'infinito attorno al medesimo tavolo. Macchie di caffè, di escrementi e di lacrime la rendono quasi variegata. Un'infinità di fogli, fascicoli pieni di scritte sbiadite e d'inchiostro secco. Più mi guardo attorno più la scena che mi si palesa davanti per quanto silenziosa inizia a spaccarmi i timpani, l'odore di chiuso come monossido di carbone mi riempie i polmoni, i vasi sanguigni e le cellule. Sento questa cattività nello stomaco e questa disperazione negli occhi, nel naso, nelle orecchie. Lo sfarfallio delle luci si trasformano in calabroni spietati, opachi, vuoti di alcun veleno. Più mi rigiro sulla mia sedia più le pareti sembrano piccole...e poi un rumore...una porta che sbatte ancora e ancora e ancora e ancora e ancora. Mi fermo, nello schermo del computer lo vedo, non posso scappare, mi guarda negli occhi, mi penetra l'anima; fa male. Un rumore nell'angolo, è lei, sempre con me, instancabile, nera come la morte. Mi guarda, mi sussurra. Infine uno scricchiolio e il soffitto, tonnellate e tonnellate di cemento cadono. Buio, vuoto, morte.

Un soffitto profondamente triste, queste lenzuola sono come carta vetrata di un colore profondo che mi fa venire sete. Ho la gola secca, quasi dilaniata dalla sete. I pungiglioni su tutta la pelle la rendono rossa e sensibile. La sento urlare, chiedere aiuto. Difficile dormire su tizzoni ardenti, che schifo. Mi alzo e sento ogni singola responsabilità cadermi addosso come macigni dalle forme offensive noncuranti delle mie preghiere. Non ascoltano, loro non vogliono ascoltare. Hanno strappato le loro orecchie e ne hanno fatto adorno per la loro perfidia. Non vogliono parlare. Sento le spalle pesanti e la spina dorsale sul punto di spezzarsi. Si spezzerà veramente...questo dubbio mi assilla. CODARDO. Una tenue luce penetra dalla finestra, è tiepida, mi rilassa, mi fa stare meglio. Una lunga striscia calda mi permea le braccia e le gambe. È rincuorante. La voglia di riprovarla mi assilla la mente, sembra droga. Dovrei farlo? Mi giro verso il letto e intravedo una grande rosa cremisi sporcare le lenzuola e il materasso; che puzza di ferro. Odiosa. Mi avvio alla serranda e la alzo velocemente, un'abbagliante luce biancastra invade la stanza quasi completamente vuota. Che letto brutto, a dir poco orripilante; un letto sporco, corrotto e un letto distrutto, pieno di strappi, tagli, graffi, l'imbottitura fuoriesce prendendo forme insensate e un insieme di coperte informi creano una sagoma quasi umana. Mi pare di riconoscerla. La cosa più disgustosa è un buco al centro del materasso dal quale salgono braccia stanche, illuse, quasi rassegnate, Hanno perso la voglia di alzarsi cercando di aggrapparsi a qualcosa che neanche loro sanno cosa sia. Anche se demoralizzate ci provano lo stesso. Che stupide, le disprezzo e le invidio allo stesso tempo. Un ricordo balena nella mia mente, più simile a un promemoria. Guardo in basso e lo guardo con paura, un foglio di quaderno pieno di parole d'inchiostro deformate, quasi sciolte da un diluvio di lacrime. La sento di nuovo, sento i suoi sussurri, accompagnano questa triste melodia di lettere. Più lo guardo più i bordi iniziano a diventare rossi e un fuoco sorridente distrugge quelle parole blasfeme, che sollievo. C'è puzza, puzza di fallimento. Mi dirigo in cucina indifferente dell'ambiente attorno a me, di questa casa ormai spoglia delle sue memorie, ormai spoglia di qualsiasi tratto che la distingueva come mia. La sua scarna accoglienza e la sua scarsa familiarità mi spiazzano. È ancora casa mia, lo so, il mio cervello lo sa. Nonostante ciò sento che c'è qualcosa di diverso, lo percepisco. Il tutto la rende quasi inquietante. Mi incute timore e ansia. Attraverso la cucina desolata e la prima cosa che il mio cervello nota è la città fuori dalla finestra, spezzata, incompleta. È come un puzzle incompleto, mancano ingenti quantità di persone, case e di terreno. Parti della città sono come volatilizzate e le uniche cose visibili sono la fitta nebbia nociva e le nuvole grigie, morte, spoglie di qualsiasi tratto leggero e sereno che incombono su tutta l'area. Una gabbia così luminosa da rendere inaccessibile la visione; è tutto così accecante. Fumo mellifluo esce dalle finestre creando un soffice vortice che ruota sulla città. Ogni cosa in questo squallido teatro è attratto da esso come un sole ingordo che tramutato in buco nero è pronto a inghiottire i suoi amati pianeti. Una tavola imbandita di pensieri mi aspetta alle mie spalle, pronto per sfamarmi. È schifosamente generoso. Un solo bicchiere di siero bollente scorre nella mia gola scaldando le mie viscere tristi. Mi alzo di fretta sentendo l'orologio urlare il suo ultimo rintocco e tutto attorno a me inizia a girare, il pavimento diventa come colla densa che mi forza a non fare un solo passo ma la volontà è forte e mi dirigo in un tenebroso sgabuzzino dall'odore acre e pungente. L'unica cosa viva in quel piccolo angolo di mondo sono delle falene, nere come il carbone e portatrici di una brutta novella. Le ascolto e riascolto finché il silenzio non diventa sovrano di quell'attimo fuggente ma che persiste a rimanere. Prendo i vestiti marci, freddi e leggeri come le piume e li indosso. Sento la pelle vibrare, come se fosse in disaccordo e indosso un grosso cappotto. È caldo, morbido. Mi rilassa e mi fa stare bene. Sento il suo odore, il profumo di colui che tanta bellezza e ingegno rinnega. Mi sento per un attimo al sicuro finché non torno alla realtà. Mi sento affranto.

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