III

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Le "merengues" avevano vinto il sorteggio e calciavano per primi, ma sotto la nostra curva. Gol. Gol. Gol. Gol. Gol. Gol. Fuori. Toccava a me e il loro numero dieci aveva appena sbagliato. Come mai il campo era diventato delle dimensioni di quello di Holly e Benji? Non era scientificamente possibile.

Presi in mano il pallone: mi sembrava un estraneo. Lo avevo toccato per 120 minuti e mi sembrava di non averlo mai visto. Io, che da piccolo non dormivo con i pupazzi ma con i palloni. Avevo l'Etrusco, il Fevernova, il Brazuca... e quello chi era?

Presi la rincorsa, più lunga del solito: meglio tardare l'impatto fra il pallone e il mio piede il più possibile. Partii, mi pareva di avere ai piedi le catene di Marley, il vecchio socio di Scrooge nel Canto di Natale. Lui le catene se le era costruite di giorno in giorno con il suo comportamento, io avevo fatto di meglio, me le ero create più lunghe e in una sola sera.

No, dai, tirarlo alle stelle sarebbe stato troppo scontato, io avevo fatto di meglio: avevo passato il pallone al portiere.

Sì, avete capito bene, proprio un passaggio preciso, con l'interno del piede, centrale ovviamente per non farlo faticare. Avevo capito troppo tardi che quello non era il torello dell'allenamento. Ripensandoci, non avrei mai potuto calciare il pallone in curva con tutta la forza del mio corpo perché, anche se ce l'avevo, non me la sentivo. Un passaggio floscio mi rappresentava sicuramente meglio.

Ci misi qualche istante a realizzare, quando il madridista si avvicinò a sua volta al dischetto io ero ancora lì. Farfugliai uno "Scusa."
che lui sicuramente non aveva capito e mi aggregai al mio gruppo, vicino a Giulio Angeli. Lui mi abbracciò, io ero stupito, non me l'aspettavo. Non disse nulla. La sua dote era che con il silenzio lui ci poteva scrivere la Divina Commedia, tanto significavano le parole che non avrebbe mai pronunciato. Anche gli altri non mi parlavano, ma mi giudicavano con gli sguardi, al contrario di Giulio Angeli.

Quello dei Blancos con cui mi ero scusato sbagliò il suo rigore.

Giulio Angeli segnò.

Avevamo vinto la Champions. Avevano.

I panchinari fecero invasione di campo, il mister si tolse la giacca che chissà come aveva fatto a portare fino a quel momento, era giugno. Tutti si diressero verso Giulio Angeli.

Non verso di me.

Ma era giusto così. Non ero invidioso di lui, si meritava tutto questo. I miei compagni si abbracciavano, si buttavano per terra, piangevano, sfilavano orgogliosi con le bandiere della loro nazione. I ragazzi del Real avevano tutti le mani davanti al volto, né nel tunnel né alla fine del match ero riuscito a vederli in faccia. Io sembravo essere entrato in campo in quell'esatto istante, non gioivo né mi disperavo. I compagni mi davano il cinque e mi abbracciavano, io ricambiavo accennando un sorriso malinconico, che mi riusciva proprio bene. Iniziarono i preparativi per la cerimonia e in quattro di noi furono chiamati a campione per l'antidoping.

Fra questi quattro c'ero io.

Sospettavano di me? Avevo giocato la mia partita peggiore. Eppure si sarebbe dapprima mormorato, bisbigliato e il giorno seguente si sarebbe urlato, gridato che sì, Lorenzo Strozzi era dopato. Certo che mi avrebbero beccato, sapevo meglio di loro che non avrei potuto farla franca. Non avevo nemmeno più voglia di mentire ancora, di sorridere ancora così. I risultati non sarebbero stati svelati subito, potevamo andare a sollevare il trofeo.

Tornando in campo vidi Giulio Angeli che stava finendo un'intervista. Non potei fare a meno di pensare a quanti bambini lo stessero guardando da casa sognanti e sospirai.

Premiarono prima i secondi classificati. Notai che alcuni si erano tolti la medaglia, mentre io avrei dato la mia per la loro. Era la più giusta per me. Anzi, non ne meritavo nessuna. Quando ritirai la medaglia d'oro, guardai tutti in faccia con disinvoltura, con il mio sorriso malinconico stampato in faccia, anche il Presidente della UEFA che mi avrebbe squalificato da lì a poco. Certo che, se non avessi più potuto giocare, sarei potuto anche diventare un buon attore. Salii sul palchetto, l'ultimo fu il nostro capitano che sollevò la coppa che sognavo da una vita. Ma quando provò a passarmela, io mi spostai: avevo mentito tante volte, ma non me la sentivo di mentire a me stesso sul mio sogno più grande.

Anche in spogliatoio ci fu la festa, sembravano tutti matti. Io, senza destare troppi sospetti, me ne andai il prima possibile. Non avevo dato tanto nell'occhio perché anche Giulio Angeli era uscito insieme a me. Sapevo che tutti sarebbero andati in qualche locale a festeggiare tranne lui, che avrebbe sicuramente preferito festeggiare con me. Mi ricordavo il mio compleanno, la mia fidanzata mi aveva in qualche modo circuito per organizzare una mega festa e aveva invitato tutti gli invitabili, fra compagni di squadra, sue amiche e celebrità varie. C'era così tanta confusione in casa mia che mi aveva perso di vista. Aveva cercato in ogni luogo, ma invano. Alla fine mi aveva trovato in una stanzina a giocare alla play con Giulio Angeli. Mi aveva strigliato
" Non ci si comporta così, sono tutti qua per te!" e altra roba, mentre io e il mio amico ci guardavamo sorridendo. A noi bastava poco, eravamo uno la festa dell'altro.

"Nemmeno tu vai da qualche parte stasera?" mi domandò infatti lui.

"Già."

"Posso venire da te? Ho voglia di fare due chiacchiere."

"Le stiamo già facendo."

sorrisi cercando di defilarmi, ma lui non demordeva.

"Lore, lo so che hai un problema. Ti comporti in un modo troppo strano. Non so cos'hai, me lo devi spiegare. Come posso aiutarti altrimenti?".

Non mi meritavo un amico disponibile a sacrificare la serata più bella della sua vita per me. Cristo, era in un parcheggio con in mano il trofeo dell'MVP e la medaglia al collo e pensava a uno sfigato come me.

"Nemmeno io so cos'ho." mentii. Non era possibile, ora anche lui era vittima delle mie bugie. Non volevo, ma dovevo.

Eravamo arrivati alla sua auto, ma si vedeva che non voleva abbandonarmi. I nostri compagni avevano macchine verde fluo, arancioni, dorate e chi più ne ha più ne metta. Noi invece avevamo entrambi una vettura nera. Giulio Angeli mi fissava. Aprì lo sportello.

"Non posso obbligarti a parlare, ti rispetto." affermò, ma ancora non saliva, attendeva una mia ultima risposta. Ma invece io feci uno dei miei sorrisi malinconici. Lui era l'unico che capiva che i miei occhi erano tristi. I giornalisti mi facevano i complimenti ogni volta che venivo intervistato "Sei sempre così sorridente!". Le ragazze dicevano che era il mio sorriso che le stregava. Mi sembrava che tutti loro avessero una benda sugli occhi.

Lui sospirò.

"Non posso sopportare il tuo sorriso. Dimmi, Lore: perché?"

VA TUTTO BENEWhere stories live. Discover now