Capitolo 2.

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Il tempo scorreva inesorabilmente. Verne non poteva fare a meno di pensare alla creatura del Signor Manzoni, evitando di avvicinarsi all'angolo della cascina in cui era rinchiusa. Ma la curiosità, simile a un germoglio che fiorisce dalla neve, lo spinse a fare ritorno. Un giorno vide sua madre entrare in quell'ombra dove dimorava, ma non riusciva a comprendere il motivo per cui lei non subiva alcun danno. Riflettendo sulle parole del Signor Manzoni, Verne cercò di credere che l'assenza di paure potesse placare la furia del mostro.

I giorni si susseguivano con solennità, come le pagine di un libro, in cui si potevano scorgere negli angoli le raffigurazioni del viaggio di Verne verso la tana del mostro. In una giornata serena si accomodò su quella sottile linea che separava il bene dal male, senza curarsi della vigilanza delle telecamere. Era giunta notizia che il reverendo era gravemente indisposto e aveva espresso il desiderio di esalare l'ultimo respiro nella casa in cui aveva trascorso l'intera esistenza, evitando di essere trasportato in un luogo estraneo. La sua volontà era quella di morire lì, dove era venuto alla luce e aveva vissuto con dignità.

In un battito di ciglia, il volto mostruoso di quell'essere emerse dalle tenebre come una lama affilata. La catena infernale teneva prigioniero il demone che si agitava con furia, balzando su due zampe e raggiungendo un'altezza terrificante. Gocce calde di bava colavano sul viso di Verne come lava bollente, mentre era paralizzato dalla paura e non poteva fare nulla per calmare il proprio terrore. Con le gambe che gli tremavano, si alzò e corse verso casa, lontano da quella scena spaventosa.

Non passò molto tempo prima che decise di tentare nuovamente, questa volta osservando con attenzione la madre che con disinvoltura entrava e usciva dal suo territorio, nascondendosi dietro una colonna in una zona diversa del portico. Con una certa apprensione, notò che la madre era entrata con in mano i resti di un osso di recente consumato. Corse di nuovo verso la linea di confine e si fermò in attesa, fissando con inquietudine quell'oscurità, ascoltando solo il rumore dei passi della madre. L'attesa gli sembrava interminabile. Le mani iniziarono a sudargli, quando improvvisamente, inconsapevole delle proprie pulsazioni, emise un suono che scatenò l'inferno.

«Mamma!», urlò disperato, e nel momento successivo quella belva spaventosa comparve di nuovo.

«Fermati!», fu la madre ad apparire all'improvviso, afferrando con determinazione quel cane che sembrava noncurante della sua presenza. «Vattene via Verne! A casa, subito!», gridò, mentre l'amore materno immenso trionfava sull'istinto omicida della bestia, rendendo inutile ogni tentativo di violenza.

Pochi minuti dopo, la madre varcò la soglia della loro abitazione umilmente decorosa, un edificio di corte dove molti appartamenti erano abbandonati, invasi solo dalle melodiose note degli uccelli, dai furtivi topi e dai maestosi ragni, e accompagnati da profumi appartenenti a un passato remoto, ma ancora presenti.

Con un'espressione solenne e severa, il genitore fissò il proprio figlio. Verne, colpito dalla situazione, fu sconvolto dalle proprie azioni e scoppiò in lacrime, profondamente pentito per l'ennesima sciocchezza commessa.

«Volevo solo...», balbettò con voce tremante.

«Cosa!? Cosa pensavi di fare!?», gridò la madre con gli occhi colmi di lacrime premonitorie, mentre lo stringeva forte a sé. «Tu sei l'unica cosa che mi rimane», sussurrò con affetto materno.

Con gli occhi socchiusi, Verne osservò le lacrime che scorrevano lungo il viso della madre e comprese finalmente la causa delle sue bizzarre ostinazioni. Era l'annosa lotta interiore, derivante dalla consapevolezza di essere diverso, di provenire da un angolo sbagliato del mondo. Ettore era per lui una sfida, una prova di coraggio per superare i suoi demoni, per rinascere più forte di prima, come un eroe della propria storia. Pensò a Guido e ai suoi amici, che già in quell'età fiorente erano dilaniati dai problemi legati alla droga e che lo intimidivano con la violenza e parole taglienti come lame gelide contenute nel sangue. Verne si sentiva indifeso, debole, sepolto in un abisso senza fondo. Ma in quell'oscurità relegata nei portici, intravedeva una luce, quella della salvezza, che aveva dimenticato perfino esistesse. Era la madre quella luce, e non comprendeva come riuscisse a ritornare sempre indietro da quell'eterno buio. Era un enigma che voleva risolvere.

L'eredità del donWhere stories live. Discover now