6. Raise the rod!

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«Se non vi muovete saltate la colazione!».

La sveglia, quel mattino, non era stata dolce: un soldato con la tromba era entrato nello stanzone suonando una fastidiosa melodia.
Tutti erano saltati in piedi, con i nervi a fior di pelle e c'era stato un fuggi-fuggi verso i bagni.

I bambini più piccoli facevano fatica a camminare inciampando nella tuta che, a ben vedere, aveva per tutti la stessa taglia.
Perfino Arthur Frandsen, cresciuto velocemente in altezza e magro come un palo, aveva difficoltà a tenere al caldo le caviglie, lasciate scoperte dai pantaloni troppo corti.

Ianco tirò una gomitata a Isairel, un cenno della testa e lo sguardo del moro si posò sulle caviglie del ventiduenne. Uno sbuffo di scherno gli uscì dal naso, mentre continuava a sciacquarsi la faccia.
Aveva ancora nelle narici quell'odore nauseabondo di disinfettante della sera prima.
Si asciugò il viso, gettando poi l'asciugamano sulla spalla e seguendo gli altri ragazzi fino al refettorio.

La sala era grande e, a gruppetti, si erano già accomodati altri bambini e ragazzi, mai visti prima.
Nessuno fiatava, tutti avevano la faccia stanca, occhiaie profonde e una tristezza attorno che rendeva pesante l'aria della sala.

«Isairel! Io quelli là in fondo –Ianco fece un cenno col capo – li ho già visti ad Anglitras! Credo fossero a scuola con noi, all'ultimo anno.».
Il moro girò di poco la testa, bisbigliando in risposta all'amico: «Sì, hai ragione. Quello più alto dei quattro è uscito lo scorso anno.».

Presero i propri vassoi e si sedettero in uno dei pochi tavoli liberi del refettorio, cominciando a mangiare la loro colazione. Tra i due, Ianco era il più chiacchierone e quella mattina cercava di stemperare la propria tensione con la sua solita parlantina, cercando in tutti i modi di coinvolgere Isairel in una conversazione.
Il moro, tuttavia, avrebbe solo voluto finire la tazza di caffelatte e la fetta di torta e tornare a dormire. Si sentiva esausto.

«Mi stai a sentire?».

«No, scusa...».

Nella sala entrarono due figure: una delle guardie, grande e grossa quanto un armadio, la fronte imperlata di sudore faceva da scorta ad un uomo magro e occhialuto, dal viso smunto e le dita nervose.
La guardia cacciò un fischio per attirare l'attenzione, facendo sobbalzare anche l'uomo che aveva a fianco, prima che parlasse.

«Buongiorno ragazzi. Benvenuti all'Änderung Institut. Io sono il Supervisore Palmer. – si tormentava le mani in grembo per il nervosismo – Ieri notte si sono uniti a noi i ragazzi di Ibion. Ci uniamo tutti al dolore per le loro perdite.».
Vi fu un breve momento di completo silenzio, pesante ed imbarazzato.

Poi l'uomo riprese, sistemandosi gli occhiali sul naso e umettandosi le labbra: «Sperando non ci siano più persone a cui dare asilo, con oggi cominciamo la nostra routine. Vedrete appese delle regole sulle porte dei vostri dormitori. Le stanze che vi abbiamo assegnato fino a ieri notte rimarranno quelle definitive, fino a nuovo ordine.».

L'energumeno accanto al supervisore fece un sonoro sospiro. «Riponete i vassoi nella rastrelliera, poi tutti in fila per due dietro al Supervisore. MUOVERSI! MUOVERSI! MUOVERSI!».

Tutti scattarono in piedi, in mezzo al clangore dei vassoi e delle posate che sbattevano nel trasporto.
La doppia fila si formò presto, un po' per l'ansia, un po' per il timore di quel grosso militare dalla voce profonda.
Circa cento ragazzi seguirono bisbigliando il supervisore lungo un corridoio e poi in un ampio stanzone: verso le ampie finestre erano sistemate delle sedie e, lungo la parete opposta, dei séparé lasciavano intravedere una serie di lettini medici. Accanto ad ogni lettino vi era un medico in camice candido e accanto ad ogni sedia, un inserviente vestito di grigio.

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