12. Spread hummus, not hate

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E se ti dicessi che sono incapace di tollerare il mio stesso cuore? - Virginia Woolf

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Abbandono la mia bici davanti al cancello, legandola alla recinzione prima di suonare il campanello Nolan - Torres.

Il quartiere Mezirow dista una buona mezz'ora di camminata da casa mia. Avrei anche potuto correre in realtà, il tragitto pedonale sarebbe stato un ottimo allenamento, ma dato il freddo ho pensato di accorciare la distanza venendo in bici, ma ho solo raddoppiato il dolore.

Faccio una smorfia, massaggiandomi le cosce indolenzite dalla pedalata. Mi chiedo se Saif possa andare in bicicletta. 

Mi sembra dura con una protesi, ma forse ci sono delle bici speciali o robe simili. Dovrò cercare anche questo su Ecosia.

«Ciao, Raya.»

L'espressione stoica, le labbra sottili piegate in una linea sottile e lo sguardo distaccato, come se non fosse qui.

Ad aprirmi la porta è il gemello che non mi interessa, ma a differenza del cipiglio minaccioso a cui sono ormai abituata, oggi Betelgeuse mi accoglie con inattesa indifferenza.

Non è che sia felice di vedermi, ma almeno ha un'aura meno ostile del solito.

Indossa una tuta scura che gli cade larga sul corpo, e ha in testa un berretto della stessa tinta. La familiare nuvoletta della Swift, ricamata sia sulla felpa che sul cappello, calamita la mia attenzione.

Mi chiedo quanto spendano in merchandising in quella scuola, avrò visto almeno dieci accessori diversi a questo punto. Alla Montalcini abbiamo solo tre scelte: la divisa formale, la divisa sportiva o una nota scolastica. Fine.

«Ciao, Betelgeuse.»

Impassibile, il gemello rasato mi studia dalla soglia, guardando il maglione panna che indosso come se fosse la cosa più nauseante che abbia mai visto. Un po' invidio la capacità che ha di trasmettere tutto il suo astio, solo con una semplice occhiata.

«Allora, puoi chiamarmi Saif?» chiedo, quando non mi invita ad entrare. «Fa abbastanza freddo, e se non l'avessi notato non ho la giacca. Sai, perché me l'ha rubata tuo fratello.»

«Non hai pensato che fossi Saif?» mi chiede, curioso ma non sorpreso. «Quando ti ho aperto la porta?»

«Perché mai avrei dovuto?» 

«Perché siamo gemelli.» insiste, assottigliando lo sguardo. «Che cosa ti ha fatto capire che non ero Saif?»

«Tipo tutto? Siete poli opposti, dubito che qualcuno potrebbe mai scambiarvi» aggrotto le sopracciglia, accorgendomi solo adesso che non porta l'orecchino. «Ma forse la prima cosa sono le lentiggini. Saif ne ha molte di più.»

Colto alla sprovvista, il ragazzo si fa finalmente da parte, permettendomi di ripararmi dal freddo in casa Torres, che è come la ricordavo: enorme, moderna e profumata come un campo di agrumi.

Solo quando mi sfilo le scarpe, mi accorgo che il tappeto all'ingresso è pieno di calzature. Ci sono degli anfibi lucidi, tacchi eleganti, delle airforce spaiate, zoccoli ortopedici, scarpe per bambini, un paio di ciabatte dorate e quelle che riconosco come le sneakers di Saif.

Non avrei mai pensato di trovare conforto in delle scarpe ammucchiate tra di loro, ma è così. Mi ricorda l'entrata di una moschea. Casa Torres è piena di persone che vanno e vengono, e questo la rende viva, accogliente. E' una zona sicura, non c'è il rischio di farsi male qui.

Appoggio le mie scarpe vicino a quelle di Saif, e c'è qualcosa di rassicurante nel sapere che posso abbandonarle qui e ritrovarle ad aspettarmi quando vorrò andarmene.

Sotto Lo Stesso CieloDonde viven las historias. Descúbrelo ahora