ᴠᴏᴄᴇ

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Il signor Sanles amava passare il proprio tempo in quello stretto garage nella periferia sud di Oaxaca de Juárez, circondato dai suoi piccoli progetti di cui andava tanto fiero.

Fu lì che Guillermo, Memo, venne attivato per la prima volta: tra un cagnolino meccanico impolverato e tanti, tantissimi cacciaviti di tutte le misure. Ma non era a conoscenza di quel dettaglio perché riuscisse a vedere attorno a sé; il signor Sanles, infatti, non era ancora riuscito a trovare un modo per dotarlo della vista. Era stato il suo creatore a descrivergli il posto in cui era avvenuta, se così poteva essere considerata, la sua nascita.

Gliene aveva raccontate di tutti i colori mentre smanettava con i meccanismi che lo componevano. Dal garage in cui si trovavano, alla sua vita di tutti i giorni; dalla famiglia, all'unica persona che avesse mai amato con tutto sé stesso.

Hernán Sanles, infatti, aveva una moglie. A Memo fu detto che era molto bella, molto più di quanto l'uomo pensasse di meritare o, almeno, era quello che gli aveva sentito dire in un caldo e afoso pomeriggio di fine estate. Aveva deciso di migliorare la sua forma quel giorno, portandolo dall'essere un semplice e ordinario cubo, a puntare in alto, esattamente come la piramide in cui era stato trasformato.

Che poi era da quando aveva iniziato a percepire ciò che lo circondava che si ritrovava spesso ad ascoltare i racconti del signor Sanles. Solo i suoi, perché per mostrarlo alla sua amata voleva aspettare che Memo fosse perfetto.

Aveva in mente tanti piani per lui: collegarlo alla rete elettrica della casa, installare microfoni e altoparlanti in quasi tutte le stanze e, magari, qualche videocamera. Ma di quest'ultimo punto non ne era ancora tanto sicuro: se con i primi due quella piccola intelligenza artificiale poteva tenere compagnia a sua moglie, con l'ultima idea, invece, rischiava che potessero perdere man mano la loro privacy.

Memo sentiva e ascoltava ogni parola che l'uomo pronunciava, ma a una settimana dalla sua nascita, non poteva ancora rispondere perché Hernán era impegnato nella creazione del sintetizzatore vocale perfetto. Non sapeva cosa cercasse di preciso a essere sincero, l'unica cosa di cui era sicuro riguardava le sensazioni che aveva sulle varie voci che provava man mano: non erano mai quelle giuste.

Lo aveva sentito imprecare e bestemmiare più volte in quel periodo, quando passava ore lì con lui senza concludere nulla di concreto, ma lo aveva sentito anche speranzoso e curioso.

Gli piacevano le sensazioni, le emozioni. Lo incuriosivano molto più di tante altre cose. Non le sentiva nel vero e proprio senso della parola, Hernán gli aveva detto che un'intelligenza artificiale non era programmata per emozionarsi, ma percepiva lo stesso come ognuna di esse facesse cambiare quell'uomo tanto gentile.

Quando era arrabbiato Memo lo sentiva sbattere i pugni sul ripiano dove era poggiato; quando era felice, invece, camminava molto avanti e indietro in quel piccolo spazio, a volte faceva dei piccoli saltelli.

Proprio per quel motivo, le prime cose sulle quali chiese spiegazioni furono le emozioni. Chiedeva ogni volta che non riusciva a riconoscerne una e, quando era dubbioso, chiedeva invece conferme. Perché sì, alla fine il signor Sanles era riuscito a dargli voce, ma era una voce particolare, molto più acuta di quella dell'uomo che gli parlava ogni giorno dal minuto zero.

«Perché la mia voce è così?» Era una serata tranquilla come tante altre quando decise di chiedere a Hernán di quella stranezza. Di chiedergli perché, tra le tante voci possibili, lui avesse scelto proprio quella.

«Così come?» chiese Hernán di rimando. Era curioso, Memo lo capì dal rumore che fece la sedia sulla quale si sedeva quasi tutti i pomeriggi: aveva fatto quel classico cigolio di quando si girava nella sua direzione. «Acuta, è più la voce di un bambino che di un adulto.»

Sentì un sospiro e il rumore di qualcosa di metallico venirgli poggiato a fianco. In qualche modo gli dispiacque: la sua intenzione non era intristirlo, voleva solo capire. Passarono alcuni minuti di silenzio prima che la voce profonda e stanca del suo creatore prorompesse nel silenzio del garage. «È la voce che immagino sarebbe stata di mio figlio.»

Memo non era ancora capace di vedere, ma per la quantità di tempo che aveva passato insieme a quell'uomo, aveva imparato a conoscerlo. Aveva memorizzato ogni suono che poteva essere prodotto in quello spazio, aveva digerito e conservato ogni racconto che gli era stato fatto, e aveva prestato attenzione a ogni spiegazione che Hernán gli aveva dato.

Sapeva tutto di lui: come reagiva quando era triste, il suo canticchiare quella che aveva scoperto essere I know it's over di un gruppo chiamato The Smiths quando litigava con Ofelia, come si muoveva sulla sedia quando Memo gli faceva domande alle quali non sapeva come rispondere.

Ma quella volta aveva sospirato. Stava pensando a qualcosa che non doveva essere piacevole, e lui voleva sapere. Voleva sapere a cosa stesse pensando, di così tanto triste, l'uomo che gli aveva donato la vita. Eppure qualcosa di più urgente non gli tornava, che non sapeva: «Hai un figlio, Hernán?»

Lo stesso rumore di poco prima rimbombò in quello spazio piccolo, più e più volte, come se il signor Sanles lo stesse rigirando tra le mani senza alzarlo realmente dal ripiano. Forse era un cacciavite, forse una chiave inglese, ma a Memo non interessava in quel momento. Pensava che l'uomo con cui passava le serate gli avesse raccontato tutto senza risparmiargli dettagli. E invece eccolo lì, in attesa di un'informazione che sperava di poter ricevere prima.

«Avrei dovuto averlo, Memo,» la sedia fece il rumore classico di quando veniva abbassata sotto il peso dell'uomo che era lì con lui, «ma Ofelia lo ha perso... tanti anni fa ebbe un aborto spontaneo».

«Cos'è un aborto spontaneo?»

«Ecco... il bambino è morto prima di poter nascere.» Non capiva quella piccola piramide bianca in ascolto. Non capiva come fosse possibile morire prima ancora di poter vivere, ma non era una cosa sulla quale voleva indagare in quel momento. Percepiva da come Hernán si muoveva che, anche se avesse voluto, non sarebbe riuscito a rispondere.

Si era alzato di nuovo e aveva ripreso ciò che aveva lasciato a fianco a Memo prima che gli domandasse della sua voce. Forse era tornato a lavorare sui sensori visivi che gli avrebbero permesso di osservare il mondo.

In effetti, si era chiesto più volte come facesse quell'uomo a saper costruire tutte quelle cose; se l'era chiesto così tante volte che, un giorno, Hernán glielo raccontò senza che glielo chiedesse. Era ovvio che non fosse qualcosa di voluto, semplicemente l'uomo amava raccontare storie mentre lavorava ai suoi progetti.

Così Memo ascoltò per la prima volta di come l'appena ventenne Hernán Sanles, studente di ingegneria informatica, aveva conosciuto Ofelia, studentessa di giurisprudenza.

Quell'anno era stato devastante per la loro città: i professori manifestavano per avere dei salari più alti; all'epoca erano i più bassi del paese e non erano sufficienti a garantire una vita che potesse essere definita tale.

In quel periodo i due ragazzi frequentavano quella che l'ormai signor Sanles aveva chiamato Universidad Autónoma Benito Juárez de Oaxaca. La ragazza, in particolare, partecipava spesso alle trasmissioni di Radio Universidad. L'uomo gli disse che quella stazione radio, all'epoca, era strettamente collegata all'organizzazione che, anche negli anni successivi, si era impegnata per la rivendicazione dei diritti della parte più emarginata del Paese.

Ofelia era sempre presente quando si trattava di manifestare, quando si trattava di far valere i diritti di qualcuno, anche se quel qualcuno non lo conosceva. Lui, invece, era presente per aiutare il padre: con il suo solo stipendio non riuscivano ad arrivare a fine mese da tanto tempo. Quella volta, addirittura, avevano rischiato che staccassero loro anche la luce.

Il 2 novembre 2006 quindi, per una qualche strana coincidenza, si ritrovarono a manifestare fianco a fianco. Hernán e Ofelia mantenevano lo stesso striscione, le loro braccia si sfioravano e le loro voci urlavano all'unisono.

Il signor Sanles lo definì "amore alla prima manifestazione" e Memo lo sentì ridacchiare alle sue stesse parole. Quella piccola coscienza cibernetica non si aspettava esattamente quella storia, ma non se ne lamentò: aveva scoperto cosa facesse il suo creatore e anche qualcosa in più.

Aveva scoperto qualcosa di più bello e importante.

Memo - Cos'è il dolore?Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora