IV.

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5 Gennaio 1941

Jimin irruppe nello studio, spalancando la porta con una spallata e trascinando con sé il ragazzo ferito, chiamando con voce sostenuta, «Seokjin-hyung! Aiutami, ti prego!»

Il peso del ragazzo gravava completamente su di lui, ormai privo di forze, e si sarebbe preoccupato ancor di più se non avesse sentito i lievi rantoli che emetteva a passi alterni. Con una mano, Jimin gli premeva la ferita sanguinante, cercando di fermare l'emorragia, mentre con l'altra lo sosteneva a stento. «Siamo arrivati, presto starai meglio,» era solo una delle frasi di incoraggiamento che continuava a mormorare per cercare di tenerlo cosciente.

Appena li vide, Seokjin si precipitò verso di loro e si affrettò ad affiancare Jimin, per aiutarlo a sorreggere il peso dell'altro e portarlo nella stanza attigua, dove lo adagiarono sulla barella al centro della stanza. Con sveltezza, rinfoderò la pistola nella fondina, avendola sfilata dalle mani del ragazzo prima che cadesse in terra quando questi per camminare aveva avuto bisogno di aiuto. Poi Jimin si tolse la borsa di dosso e la posò delicatamente a terra, e nel farlo notò una targhetta di stoffa cucita alla tracolla che riportava il nome del suo proprietario: Min Yoongi.

Quindi era così che si chiamava.

Lo studio di Seokjin, quello dove era solito curare i propri pazienti, era incastrato fra un'apoteca e una drogheria su una strada principale, dove le pattuglie giapponesi potevano vederlo e potevano complimentarsi a vicenda su quanto bene tenessero d'occhio uno fra i migliori medici della nazione.

Il vero studio del dottore, quello in cui si trovavano ora, in realtà era in una piccola abitazione al primo piano di un edificio fatiscente, nascosto in una strada secondaria, dove difficilmente qualcuno sarebbe venuto a curiosare. L'arredamento era scarno, su volere di Seokjin, che voleva un luogo che potesse lasciare alla svelta e senza alcun rimpianto, nel caso in cui fosse stato scoperto. Infatti oltre a un armadio, un tavolo, una sedia e alla barella, non vi era nulla se non l'odore di disinfettante e di sangue.

Le finestre erano oscurate e sulle pareti c'erano alcuni poster di propaganda giapponese, accuratamente posizionati per mascherare le sue vere simpatie.  Seokjin era uno dei pochi medici che ancora si opponevano al regime e soccorrevano i feriti della resistenza, ma a vederlo nessuno lo avrebbe mai detto.

Jimin sapeva che lui avrebbe soccorso Yoongi, stimava il suo coraggio e la sua umanità nell'aiutare gli altri, indipendentemente da chi fossero o da dove provenissero, sprezzando il pericolo pur di fare del bene.

In un attimo, Seokjin prese il controllo della situazione senza indugiare in domande e, mentre si infilava i guanti per ispezionare la ferita, si rivolse a Jimin che era rimasto immobile alle sue spalle.

«Qui ci penso io, tu va'.»

Jimin scosse la testa e si affrettò a ribattere: «No, non posso, devo rimanere e assicurarmi che—»

«Jimin-ah, hai fatto abbastanza.» lo interruppe Seokjin. Nel mentre, aveva sistemato tutti gli utensili e le garze di cui avrebbe avuto bisogno su di un piccolo carrellino in metallo. «Credimi, farò tutto il possibile per aiutarlo. Ma devi andartene. Non puoi restare qui.»

«Hyung, se avessi avuto paura delle conseguenze non lo avrei nemmeno soccorso. Lascia che ti aiuti, ormai sono qui.»

Ma non fu Seokjin a ribattere a quella affermazione.

«Ha ragione, vattene.» Mormorò Yoongi, che con gli occhi socchiusi lo fissava torvo. Era sempre più pallido e letargico ma in qualche modo non aveva ancora perso quell'animosità verso Jimin che dall'inizio aveva caratterizzato le loro interazioni.

Louder than bombsWhere stories live. Discover now