𝑮𝒊𝒖𝒅𝒊𝒕𝒕𝒂 𝒄𝒉𝒆 𝒅𝒆𝒄𝒂𝒑𝒊𝒕𝒂 𝑶𝒍𝒐𝒇𝒆𝒓𝒏𝒆

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Artemisia Gentileschi, Giuditta che decapita Oloferne, 1612

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Artemisia Gentileschi, Giuditta che decapita Oloferne, 1612.

VIVIENNE

A volte, capita che il condannato non sia il vero colpevole.
A volte, abbiamo le mani insanguinate, ma il pugnale che esse stringono, non ha le nostre iniziali incise sopra.
A volte, siamo peccatori innocenti.
Eppure, questo non ci scagiona, non attenua la nostra colpa.
Io voglio provare a fare qualcosa per la mia.

Queste erano le parole con le quali eravamo stati accolti io e Calum. L’agenzia investigativa aveva pagato a entrambi un volo per Napoli nel minor tempo possibile, ma non era bastato. Raggiunto il Museo di Capodimonte, l’opera di Artemisia mancava già all’appello e la parete su cui avrebbe dovuto trovarsi sembrava gridare nel trambusto, addolorata della perdita come un’ancella a cui avevano strappato il cuore.
Gli squarci laceri di quello strazio sanguinavano sul messaggio inciso abilmente e inchiodato al muro al posto della targhetta originale.

Eravamo arrivati troppo tardi, nonostante tutto.

Il telaio era stato ritrovato in un paio di cassonetti poco lontani dal cancello d’ingresso, come da copione, e dei nastri transennavano la scena del crimine per tutta la sala.
Sulle porte erano stati affissi dei cartelli per tenere lontani i curiosi: “In fase di restauro.” Citavano, perché nessuno sapesse che in realtà vi era stato perpetrato un furto. Il direttore del museo voleva evitare che ci fosse uno scandalo e, per di più, la polizia intralciava il nostro lavoro.
Scattai semplicemente delle foto a tutto il perimetro, così che io e il detective potessimo parlarne in privato.

“Io non capisco.” Sbuffò Calum, calciando distrattamente un sassolino mentre camminava al mio fianco; i vialetti del Real Bosco, sottostante al museo, erano lunghi abbastanza e perfettamente collegati tra loro da permetterci di girovagare a lungo e ben appartati, lontani da orecchie tese e occhi indiscreti.
“Sembra stia facendo un passo indietro.”

“Il problema è che non possiamo saperlo con certezza.” Infilai le mani nelle tasche del cappotto, con le dita irrigidite che formicolavano per il freddo. Pressai le labbra, sbuffando dalle narici per il nervoso mentre camminavo al suo fianco. “È come se volesse redimersi, eppure ha rubato l’opera comunque.”

In quanto? Una settimana dall’indizio?

Pensandoci, era la prima volta che una delle lettere del ladro ci forniva un indizio così preciso sul suo prossimo obiettivo.
Non era stata recapitata ad atto compiuto. Ci aveva condotti esattamente dove avremmo dovuto essere, eravamo stati noi ad essere troppo lenti.

Lanciai un’occhiata ad una delle panchine commemorative, concentrandomi sulla targhetta che citava, in francese: “è il tempo che le hai dedicato, che rende la tua rosa così importante. Il piccolo principe. Bruno. 28 Ottobre 2017.”
Mi chiesi chi fosse quel Bruno, quale fosse la sua storia e quella che si celava dietro quella dedica; perché la sua vita si fosse spezzata e perché qualcuno si fosse premurato di ricordarlo per sempre nei giardini di uno dei musei più importanti d’Italia.
Ogni panchina era un ricordo d’amore, d’affetto, di perdita. Il mio cuore si riempii di commozione e non potei fare a meno di scattare foto a qualsiasi cosa mi capitasse a tiro, come una bambina.
Avevo studiato molto Napoli e le sue bellezze e, in particolare, quel museo, ma non ci ero mai stata.
In quei due giorni, ne avrei sicuramente approfittato per visitarlo da cima a fondo, a dispetto dei miei impegni.

𝑶𝒎𝒏𝒊𝒂 𝒗𝒊𝒏𝒄𝒊𝒕 𝑨𝒎𝒐𝒓; hsDove le storie prendono vita. Scoprilo ora