- LA MORTE DI GIACINTO -

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Quei sei mesi in Russia lo avevano svuotato di ogni emozione e sentimento, di qualsiasi passione e ambizione.

In tutte quelle settimane non fece altro che pensare all'addestramento e al fatto che dovesse imparare in fretta per tornare il prima possibile a San Francisco. Detestò quei mesi passati a Mosca.

Tutto quel sangue e tutto quel sudore versati lo avevano prosciugato di qualsiasi cosa. L'unica cosa che lo faceva alzare al mattino era il pensiero che ben presto avrebbe reso orgoglioso suo padre. Furono tante le volte in cui si chiese se ne valesse la pena, se quella non fosse una delle sue solite scelte sbagliate, se fosse giusto rischiare la propria vita per qualcun altro.

Alla fine di quel periodo, il suo desiderio di trovare una risposta a quelle domande svanì. Era stanco di pensare, tutto quell'addestramento gli fece capire che lui non fosse un bravo pensatore. Il suo problema più grande non era il porsi troppe domande, ma piuttosto il cercare risposte sbagliate.

Il Signor Ivanov lo colpiva sulle mani ogni volta che i suoi occhi si illuminavano della luce dei pensieri. Non voleva che si ponesse domande, che cercasse risposte. Voleva solo un corpo da addestrare, un ragazzino da far diventare un uomo, una persona che diventasse una macchina pronta a sacrificare la propria vita per quelle altrui. Ricordava ancora il dolore di quel bastone che colpiva le sue dita, il bruciore del disinfettante sulle ferite, e i pianti fatti la notte ogni qualvolta il suo sguardo si posava sulle sue mani oramai rovinate dai segni di quella tortura.

Alla fine, però, quella sofferenza gli servì a qualcosa: a dimenticare il suo dolore. A dimenticare la morte del padre, la pazzia della madre, la fiducia che provò per quelle famiglie che gli diedero casa ma che si rivelarono dei mostri, la mancanza di quei ragazzi che lo avevano preso dalla strada e che si erano impegnati per dargli tutto l'amore che gli mancava. Zareb tornò dalla Russia con un viso privo di ogni cosa, come se i suoi lineamenti non fossero mai stati attraversati dalle emozioni. La fiamma che aveva dentro si era completamente spenta, lasciandolo in un buio dentro cui lui aveva imparato a camminare durante l'addestramento.

Non poteva andare meglio di così, pensava. Niente emozioni, niente legami con le persone, nessun bisogno di una luce per camminare nelle sue tenebre... Ma mancava qualcosa. Sentiva un buco in quel puzzle tanto perfettamente ricostruito. Odiava pensare che anche lui - come tutti gli esseri umani - avesse bisogno di un legame per essere felice. Tuttavia, quelle lunghe settimane gli fecero capire che lui non fosse diverso dagli altri, che anche lui avesse un estremo bisogno di compagnia, di qualcuno che gli desse un po' di calore quando quel buio lo congelava.

Eppure, non c'era nessuno. Era da solo.

Perciò, aveva imparato a resistere al freddo e a detestare il calore degli altri, affinché - una volta trovato quel calore - lui potesse respingerlo. Ecco cosa aveva imparato. Aveva imparato a respingere tutto e tutti. Emozioni, sentimenti, persone. Perché così doveva essere, diceva il Signor Ivanov. Per fare quel lavoro, lui doveva chiudere il suo cuore e non permettere a niente e a nessuno di entrarvi dentro. E doveva chiudere i pensieri, le passioni, il cervello intero. Perché a lui non serviva una mente per compiere quel lavoro. Lui aveva bisogno solo del suo corpo.

Il pensiero di servire al mondo solo per l'involucro della sua anima lo ferì per parecchio tempo, ma dovette arrendersi al suo destino. Era fatto solo per questo, perché il mondo non aveva bisogno di una persona così insignificante... La sua scomparsa non avrebbe cambiato nulla.

Perciò, gli diceva l'addestratore, perché non sfruttare il suo involucro finché ancora in vita?

Furono pochi i momenti in cui lasciò respirare cuore e mente.
I primi due mesi, ad esempio, pensò spesso ai suoi genitori. Al quarto mese ebbe la notizia che Clark - uno dei ragazzi che si presero cura di lui - era stato ucciso; perciò, si lasciò andare ad un pianto feroce e silenzioso. E durante l'ultimo mese, nascondeva al Signor Ivanov la sua immensa felicità per aver concluso quel terribile addestramento. L'ultimo giorno, però, aveva visto i suoi occhi sorridere e - di conseguenza - Zareb passò l'intera notte legato a un palo e a patire il dolore delle frustate.

IL CANTO DELLE SIRENE (LA MALEDIZIONE DELL'UNIVERSO #2)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora