Capitolo 5

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Quando poche ore più tardi mi sento meglio, ho finalmente il permesso di alzarmi e comincio a girare il reparto, cercando di rendermi conto in che razza di posto sia finita. Cammino fino in fondo al corridoio, per una decina di metri, ed arrivo sul terrazzo, uno spazio all'aperto circondato da sottilissime sbarre d'acciaio. Vi trovo seduta una signora di circa cinquant'anni, che lanciandomi un'occhiata, mi apostrofa sorridendo:

"Ciao, sei nuova?"

"Sì " rispondo lievemente a disagio. Facciamo amicizia quasi subito. Mi dice di chiamarsi Candida e di fare l'insegnante di yoga. Attraverso la sottile camicia da notte che indossa, posso ammirare i tatuaggi del Dio Shiva che ha su tutto il corpo.

Poco dopo, faccio conoscenza con Sarino, un uomo sui quarant'anni con un fisico sportivo e un'apparente aria da duro. Quando sono entrata per la prima volta nella sala comune (dove si trova la tv, il gioco del calcetto, ed un armadio contenente parecchi libri e riviste), lui era intento a fare ginnastica nel bel mezzo della stanza. Mi sono lasciata cadere sul divano ch'era lì, ancora debole e intorpidita.

"Ciao, sei nuova?" mi chiede. "Che cosa hai fatto per finire qui?"

Gli rispondo un po' imbarazzata:

"Ecco, diciamo che per sbaglio ho preso troppi farmaci"

"Sì certo. Per sbaglio vero?" mi domanda ironico.

Mentre sono lì seduta si butta con foga in tutta una serie di esercizi che dovrebbero essere i cinque tibetani, solo che si affanna a svolgerli in tempi velocissimi, sudando come un pazzo. Sarino mi dice che assomiglio alla bambina di nome Sara che recita nel film "Il corvo" e da quel momento si rivolge a me chiamandomi "Sara del corvo". Da altre stanze arrivano altre persone in quella sala. Faccio conoscenza con Edwin, un ragazzo sui vent'anni dalla pelle ambrata; poi con Gianluca e Davide, due uomini di mezza età, molto amici tra loro. Sono tutti molto simpatici e gentili nei miei confronti. La prima cosa che ho notato è il modo in cui mi hanno accolto tra loro, un senso di cameratismo dovuta alla nostra condizione di "rinchiusi" dentro al reparto.

Le giornate cominciano a trascorrere in maniera interminabile, e sono solo scandite solo dagli orari regolari dei pasti. Il massimo della vita sociale, in SPDC è parlare con gli altri all'ora del fumo, quando tutti i pazienti più vitali si riversano sul terrazzo. Innanzi tutto ci si trova all'esterno, lontano dall'infermeria, quindi quando racconti i fatti tuoi hai perlomeno la speranza di non essere sentito dal personale. In ogni caso, quando sei seduto fuori, è meraviglioso sentire l'alito del vento soffiare sulla pelle. Dentro al reparto ogni finestra è sigillata, il vetro è addirittura rinforzato con plexiglass così che non è possibile nemmeno distrarsi guardando fuori.

Qui invece, dentro quella che sembra un'enorme gabbia per uccelli, osserviamo il mondo di fuori. Ci vuole poco tempo per rendersi conto che il reparto di psichiatria è un altro mondo, un micro-mondo a sé stante, con le sue leggi e regole. Il costante silenzio intramezzato di tanto in tanto da grida, la noia delle giornate che trascorrono senza alcun senso e le situazioni drammatiche che ti passano davanti agli occhi, lo rendono un luogo angosciante. Attraverso le minuscole sbarre, possiamo osservare un pezzo di strada e l'entrata di un'altra ala dell'ospedale. Non è certo la miglior vista che si possa desiderare, tuttavia, quelle persone che passano sotto di noi, intente a camminare o a cercare parcheggio, ci danno l'impressione di vivere in un mondo totalmente diverso dal nostro. Anche i visitatori provengono da quel mondo che ora ci appare così distante. Li riconosco dal passo lento e titubante quando camminano in reparto, dagli occhi che tradiscono un certo timore e circospezione. Ho la sensazione che tra loro e noi ci sia come un muro intero pronto a dividerci. Spesso, al termine dell'orario delle visite, mi affaccio sul corridoio per guardarli uscire. Li osservo a rispettosa distanza, mentre con passo deciso guadagnano l'uscita, e varcano quella maledetta porta azzurra che ci separa del resto del mondo. Loro, fuori di lì sarebbero tornati alle loro vite normali, ricche di tutte quelle azioni banali che ad noi ora sembrano straordinarie: andare a prendere un caffè, passeggiare per il centro della città, svolgere le loro commissioni o faccende di casa; noi invece saremmo rimasti chiusi là dentro, sotto l'occhio costante della telecamere, a non far nulla se non aspettare il trascorrere del tempo.

In seguito, Gianluca mi ha raccontato di come talvolta ha cercato di spiegare ad altri quel senso di timore, di vuoto e di estraniamento dal mondo che aveva provato quando era rinchiuso qua dentro; ma quando ne parlava con qualcuno che non era mai stato ricoverato, era difficile per questi riuscire a comprendere.

Gianluca era un ragazzone di circa trentacinque anni, statura media, robusto, però simpatico e sempre dall'aria allegra. Durante il giorno camminava spesso da un'estremo all'altro del corridoio

"Perché vai continuamente avanti e indietro, Gianluca?" gli chiedevo

"Perché qui non c'è nient'altro da fare!" mi rispondeva lui con un sorriso sconsolato.




Quando il vuoto m'ingoiò e mi portò via anche i pensieriOù les histoires vivent. Découvrez maintenant