In un giorno qualsiasi d'inverno

309 27 7
                                    


Devo studiare. E già la parola "devo" non mi trasmette delle belle sensazioni. Eppure, una vocina che si chiama "senso di colpa" mi comunica che è importante, che riguarda il mio futuro, che è una cosa che ho scelto io. Proprio perché è una facoltà che mi sono scelta, che talvolta mi chiedo se forse non continuo solamente per orgoglio. 

Allora insisto, fisso le parole sullo schermo troppo luminoso del computer, e quelle troppo piccole sui miei fogli... e più cerco di imprimerle nella memoria e di dar loro un senso, più mi chiedo insistentemente: è davvero importante?

È orgoglio, non si scherza. Perciò continuo finché non mi accorgo di non stare più pensando a nulla; fisso semplicemente il vuoto, tenendo stretta la matita in mano. La casa è silenziosa. Riesco a intravedere le luci dell'albero di Natale del salotto, che si accendono e spengono lentamente, alternando giochi di colore ipnotici. Non che mi importi qualcosa del Natale, o che in casa siano davvero credenti, o che creda nella bontà del genere umano in questo periodo dell'anno. Ma cosa posso farci? La gente si sente rassicurata, con queste sciocchezze stacca la spina. Sente di nuovo dell'entusiasmo.

Mi sono spostata in salotto.

Lo stero non funziona, dannazione. Le casse emettono un ronzio fastidioso, così le ho spente brontolando. Spengo anche la luce, affondo nel divano e mi ficco le cuffie nelle orecchie.

Questione di pochi minuti e comincio a piangere senza nemmeno sapere il perché.

Bugiarda.

Eppure, a quest'ora della sera, va sempre così, e chissà per quanti altri come me. Odio quest'insoddisfazione, vorrei strapparmela di dosso e sorridere. Non sto patendo la fame, non sono in guerra, e... certo, non sono stata la ragazza più fortunata del mondo, ma sono al caldo con un maglione che personalmente adoro, mentre fuori si congela e qualcuno sta morendo, e ho pasti in abbondanza tutti i giorni fatti da chi si è sempre preso cura di me, anche se non è sangue del mio sangue. E quindi, perché diavolo piango?

Un'altra vocina, nella mia testa, quella che tutti noi ricacciamo giù perché ci vuol far fare cose diverse, grida sottovoce, strozzata e sofferente: scrivi, scrivi, scrivi.

"Ma a chi importa dei pensieri di una ragazza qualunque, in un paesino qualunque, che fa cose qualunque?"

"A te."

Allora mi alzo, sentendo il peso di un corpo giovane eppure affaticato da sciocchi pensieri, e mi procuro qualcosa su cui scrivere.

Temo il troppo pensare che il nulla conclude e il tempo spreca. Temo la mediocrità e l'ambizione che distrugge. Temo le persone che han perso l'umanità, o l'umanità stessa che di gentile non ha niente. Temo per la vita che non sa più di esser tale, e l'abitudine che sopprime ogni coscienza. Temo questa stessa angoscia che blocca il respiro e rende fragile il corpo, e temo il mio corpo, ch'è fatto di paura di morire e lentamente invecchia e si consuma, come tutti quelli dopo di me e tutti quelli prima di me, dei quali non rimane che un ricordo. E temo anche i ricordi e le memorie che posseggo, ma più di tutto, in fondo, il mio non possedere nulla, perché tutto si riduce, sempre è comunque, inesorabilmente, ad un punto nero su un foglio di carta... e poi al niente.

"È tutto qui? Sei sicura? Non scrivi per scoprire quel che già sai, scrivi per dar un senso a quel che non sai."

Giorno dopo giorno cerchi di costruirti una regola sulla quale basare tutta la tua vita. Che sia lavorare, studiare, leggere o preparare il caffè. Qualcosa su cui fare affidamento quando hai talmente tanti pensieri che vai in tilt, e non cogli più un senso. Un punto di riferimento. E poi all'improvviso, sempre, tu vedi con occhi nuovi, e tutto muta e crolla ancora. Capisci che non c'è nessuna regola, non c'è nessun tempo, e forse nemmeno il perché. 

"Sii sincera, fino in fondo."

Sono solo due le cose che mi interessano davvero a questo mondo: il tutto, e il niente. La sintesi perfetta del caos che sento dentro. La singola particella, che è eterna, compone un corpo effimero. E la mia vita è troppo breve, per interessarmi all'effimero... che poi, è tutto ciò che ci resta. Un paradosso. Ci resta ciò che scompare, e tutto ciò che scompare ci porta via con sé; quindi non temere, bambina. Mi affascina l'insieme, mi affascina lo scenario di un'alba, o di un tramonto; mi affascinano la luna e le stelle, l'intera maledetta umanità, e tutti gli occhi che incontro, e i sorrisi e le gesta. Ma se poi, mi soffermo, cercando di afferrare il senso di ciò che vedo, di un'emozione, di una sensazione, di un ricordo; ecco che tutto scompare. E mi chiedo, se m'importa davvero. Mentre tutto mi scivola addosso, riducendosi a qualcosa di semplice, che scorre e se ne va. E tu resti fermo e zitto, ancora. Sempre. Mentre lavori, studi, leggi o prepari il caffè.  

Mi asciugo le lacrime. Non so nemmeno quante canzoni ho ascoltato o da quanto sto scrivendo. Tolgo le cuffie, e so già che le dimenticherò sul divano e che domani mattina rischio di non vederle e di lasciarle a casa. Le lascio lì lo stesso. 

Ora che non sento più nulla che opponga resistenza, e sono leggera, un po' automatica, come quelle luci di Natale, credo che andrò a prepararmi un caffè. Ha un buon profumo, e poi mi scalda le mani e mi distrae dal silenzio della casa. A momenti dovrebbe tornare qualcuno, è quasi ora di cena, anche se non credo che mangerò, perché il dolce del pranzo mi ha accompagnato anche per buona parte del pomeriggio. 

Torno in cucina, torno a studiare, in un giorno qualsiasi d'inverno.


All'ombra dell'animaDonde viven las historias. Descúbrelo ahora