Capitolo 25: Vetro

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LYDIA

L'uomo che ci aveva accolti all'ingresso -o meglio, che aveva accolto Chris e Octavia- stava in quel momento armeggiando con le chiavi della cella cercando di aprirla. Il legno sotto di lui scricchiolava ogni volta che, sbuffando, cambiava chiave cercando quella giusta che avrebbe aperto la porta trasparente.

Voltai lentamente la testa verso l'uscita. La stessa guardia che ci aveva fatto entrare ci fissava a braccia conserte. Il suo sguardo accigliato mi mise non poco in soggezione, così rivoltai la testa in direzione della cella, sperando con tutta me stessa di riuscire ad uscirne il prima possibile. Soffrivo leggermente di claustrofobia, leggermente tanto in effetti, e l'idea di dover essere rinchiusa in un cubo di vetro mi toglieva il respiro anche solo a pensarci. Non sarei mai potuta essere un pesce rosso.

Perché proprio una cella per Rheol di terra?

Mi lamentai mentalmente senza riuscire a distogliere gli occhi da quelle pareti incolori.

Pavimenti e pareti in legno (marcio) e celle in vetro spesso, come quello antiproiettile. Queste due componenti erano gli unici materiali che costituivano l'intera stanza in cui ci trovavamo, impedendo così un qualsiasi tentativo di fuga da parte dei Rheol di roccia, non essendocene la ben che minima traccia.

Il tintinnio che le chiavi provocavano mi ricordò per un momento casa: anche mia madre, come quell'idiota davanti a noi, non riusciva mai ad azzeccare la chiave giusta per aprire casa. Per quanto statisticamente improbabile, la chiave corretta era sempre l'ultima con cui tentava.
Era un ricordo stupido, ma bastò per tornare a farmi avere nostalgia di casa. Sembrava passata un'infinità di tempo dall'ultima volta che avevo abbracciato mio padre, riso con mia madre o chiacchierato con Ally, così tanto che i ricordi iniziavano ad apparirmi più come sogni.

Una folata di vento arrivata da chissà dove entrò dalla porta d' ingresso portando con sé tutto l'odore di stantio che quel sotterraneo ammuffito emanava. Sentii i peli sulle mie braccia rizzarsi, mentre a stento trattenni un conato di vomito. Di solito mi piaceva il profumo di muschio delle vecchie cantine, ma quello che arrivò al mio naso era odore di marcio, come di polpettone avariato rimasto nascosto in un angolino del frigo per quattro settimane.

Finalmente un clack riecheggiò nell'aria. Einstein davanti a noi era riuscito ad aprire quella cella infernale.

Ilan entrò per primo ed io lo seguii a testa bassa. April dietro di noi continuava a fissare le pareti con lo sguardo vacuo. Sembrava non essersi accorta che che la cella era stata aperta, e probabilmente era esattamente così.

«Non ho tutto il giorno, ragazzina» disse l'uomo in nero afferrandola per i capelli e spingendola con forza dentro la cella. Come se lui non ci avesse messo due secoli e mezzo per aprire questa porta.

Spinta con troppa violenza, April inciampò sui propri passi, sbattendo violentemente le ginocchia sul pavimento.

«Ehi, razza di troglodita, non è così che si tratta una ragazza!» urlò Ilan all'uomo.

Quest'ultimo per tutta risposta chiuse la porta sbattendola violentemente e se ne andò senza proferire parola.

«Tutto bene?» le chiese, avvicinandosi a lei e spostandole una ciocca di capelli dietro l'orecchio.

Lei istintivamente si ritrasse subito, perdendo il contatto con la mano del compagno.

«Tutto bene» rispose precipitosamente mettendosi a sedere e massaggiandosi le ginocchia.

«Che cafone» aggiunsi, avvicinandomi a lei e porgendole una mano.

«C'è di peggio» rispose lei con un sorriso sghembo, afferrando saldamente la mia mano e tirandosi su.

Ddaear Arall || L 'Altra TerraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora