Rabbia

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Dover, 13 novembre 2004

Le bianche scogliere di Dover. Le grigie e imponenti nuvole scure. Le acque buie di un mare in tempesta. Il forte sibilo del vento riportava nella mente di Victoria il suono di quelle parole, di quelle condanne senza assoluzione, di quelle sentenze definitive che, da una settimana a quella parte, avevano scalfito la sua esistenza.

La sua vita era ora ridotta in brandelli luridi e insignificanti. 

Improvvisamente e imprevedibilmente, ogni certezza, ogni sicurezza, era crollata. La sua esistenza, come un perfetto e ordinato castello di sabbia, era stata calpestata e, di essa, era rimasta solo la polvere. Una moltitudine di frammenti disordinati, di attimi impalpabili, effimeri e insignificanti, di schegge di vita taglienti che, attraverso i ricordi, squarciavano il suo corpo e logoravano la sua anima.

Alla soglia dei quarant’anni, si era ritrovata sola. Senza un marito, dei figli, una famiglia. Vittima di quelle convenzioni sociali che la indicavano come la fautrice primaria del fallimento della sua esistenza. 

Aveva un ottimo lavoro come architetto presso uno dei più importanti e prestigiosi studi di Londra, ma, a detta della maggior parte della gente che la conosceva, erano stati proprio la sua aspirazione al successo, la sua fredda determinazione, il suo fervido orgoglio, ad aver causato il tracollo del suo matrimonio. Dopo dieci anni di vita insieme, di apparente amore, di emozioni condivise, di impercettibili bugie e false rassicurazioni, David si era tolto la maschera, aveva terminato la sua recita e, non curante del dolore che le avrebbe provocato, le aveva mostrato il suo vero volto.

«Victoria, sono tornato».

Un gelido bacio a stampo sulla guancia sinistra era stata la prova di cui aveva avuto bisogno per comprendere finalmente la realtà.

«Come è andato il congresso?»

«La solita storia. Nulla di particolarmente interessante».

Un’indifferente e distratta alzata di spalle era stata sul punto di farle perdere in modo definitivo la pazienza. L’autocontrollo che si era ripromessa di mantenere stava per vacillare, trasportato via dalla bile che aveva iniziato a inquinarle il sangue, il cuore e il cervello.

«Immagino, deve essere stato davvero noioso assistere al convegno sugli effetti della globalizzazione sull’economia europea senza la compagnia del tuo più caro collega».

«Non credo di capire. John era con me a Parigi…».

«Per favore, smettila di prendermi in giro! Sono stanca di essere trattata come una stupida! John non era a Parigi con te. Era qui, a Londra. L’ho visto con i miei stessi occhi camminare insieme alla moglie per Hyde Park ieri pomeriggio».

La collera e la rabbia le avevano inumidito gli occhi, oltre a incrinare la voce in un suono stridulo e aspro.

«Mi è parso sorpreso, quasi terrorizzato, della mia presenza. Gli ho domandato come mai non fosse con te e lui si è limitato a inventare insulse e inutili scuse».

«È stato poco bene e ha deciso all’ultimo di non venire».

David, la cui mente era più che altro impegnata a ricercare valide scuse piuttosto che perire sotto i sensi di colpa, non ebbe il coraggio di guardare la moglie. Lo sguardo assente vagava oltre la sua esile figura, oltre la finestra, fra lo skyline londinese immerso nella notte buia.

«Ma ti senti? Ti rendi conto di quello che mi hai appena detto? Prima mi dici che John era con te, poi, davanti all’evidenza dei fatti, ammetti che non c’era perché malato! Sei un fottuto bugiardo! Non riesci neanche a stare dietro a tutte quelle bugie che tutti i giorni mi racconti!»

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