Tristezza

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Medford (Oregon), 7 settembre 2005

Una strada larga e tortuosa, costeggiata da alti abeti, si stagliava in modo nitido davanti a lei, al di là del parabrezza. Era una giornata limpida e tersa. Un cielo di un azzurro intenso, pulito da ogni grigia contaminazione, sovrastava l’esistenza di una donna che a fatica stava tentando di ritornare a vivere. Dagli altoparlanti della macchina provenivano le note malinconiche di una canzone. Wake me up when September ends cantavano i Green Day.  Forse, anche Virginia, al termine di quel maledetto mese di fine estate avrebbe potuto finalmente risvegliarsi. Avrebbe aperto gli occhi e, con enorme sollievo, avrebbe constatato quanto quella realtà terribile in cui era caduta fosse stata  frutto di un incubo. Tali miracoli accadono però solo in quei film in cui, discostandosi dalla realtà, il lieto fine diviene l’unico e illusorio scopo da perseguire. La sua vita era reale e, pertanto, era al contempo ricca di eventi definitivi e non modificabili. Il destino, il fato terribile e algido, si era scagliato contro di lei, una semplice donna di quarantacinque anni della provincia americana.

Giunta in un largo e polveroso piazzale, Virginia scese dalla macchina e, con passi pesanti, iniziò a seguire il sentiero sterrato tracciato sotto i suoi piedi. Gli occhi umidi, incapaci di cogliere ogni piccolo particolare che circondava il suo triste e solitario cammino, erano sul punto di crollare nell’ennesimo pianto disperato. Nel corso di quelle terribili settimane ci aveva ormai fatto l’abitudine. Era consapevole di come bastasse un ricordo, l’astrattezza di un’immagine e il suono lontano di una dolce voce a farle perdere completamente e definitivamente quel piccolo granello di lucidità mentale che era rimasto dentro di lei.

Suo marito George, affetto dal medesimo dolore e preoccupato del suo malessere, l’aveva portata da uno psichiatra. Qualche pastiglia sarebbe stata più che sufficiente per lenire quella sofferenza nata come risposta a un trauma che, in modo imprevedibile, si era abbattuto su di lei. Virginia era però consapevole di come il suo dolore non avrebbe mai potuto avere fine poiché nulla le avrebbe potuto restituire quello che aveva perduto.

«Mamma, cosa ne dici di questo vestito? Pensi mi stia bene?»

Virginia, con un sorriso compiaciuto stampato sul volto, aveva osservato divertita la figlia intenta a contemplare la propria immagine riflessa dallo specchio.

«Ti sta molto bene, però non pensi sia troppo corto?»

«Troppo corto? Ma se la gonna mi arriva giusto pochi centimetri sopra il ginocchio!

Credimi, questa sera, alla festa in piscina a casa di Brian, io sarò sicuramente quella con il vestito più lungo e castigato».

Emily era tornata ad ammirare, con quel pizzico di vanità consono a ogni adolescente, il proprio fisico esaltato da quel vestito leggero, colorato e scollato.

«Temo che papà non sarà molto felice di vederti uscire di casa vestita in questo modo».

«Papà dovrà farsene una ragione. Ho diciassette anni, quindi non sono più una bambina».

Virginia si era avvicinata alla figlia e, ponendosi di fianco a lei, aveva osservato soddisfatta i loro volti, così simili, stagliarsi sulla superficie dello specchio. Emily presentava i suoi medesimi capelli biondi e anche il suo viso era illuminato da due grandi occhi verdi.

Con fare materno, le aveva stampato un tenero bacio sulla guancia.

«Tesoro, sei bellissima».

«Grazie mamma, lo so. Questa sera Brian non potrà resistere al mio fascino».

Le due donne avevano iniziato a ridere complici. Una luce intensa era andata a illuminare i loro sguardi e a rendere solari i loro sorrisi. 

La ragazza si era infine sottratta alla stretta della madre e, in modo euforico, si era diretta verso l’armadio.

Il privato mondo delle emozioniWhere stories live. Discover now