2 / Una punizione appropriata

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Castello di Sárvár, Ungheria, 4 gennaio 1604.



Erzsébet poggiò l'indice sul vetro appannato, infilzando il sole con l'unghia macchiata di rosso. Le piaceva fingere di poter uccidere la luce dall'alto della sua camera da letto, dopo aver fatto l'amore con Ferenc. La riempiva di un orgoglio immaginario, senza senso, ma non per questo meno reale.

Erzsébet si voltò verso il talamo sfatto che i raggi del sole non erano ancora riusciti a raggiungere.

Ferenc dormiva ancora, infagottato nelle lenzuola, con l'espressione beata di chi è finalmente tornato a casa dopo aver attraversato l'inferno. Non aveva rughe, ma in compenso il suo corpo era ricoperto di cicatrici. Erzsébet rammentò con un brivido il piacere che aveva provato nello sfiorare la carne arrossata e trafitta dalle cuciture; Ferenc era stato così occupato a godere di lei che nemmeno se n'era reso conto.

La contessa guardò immobile l'uniforme da ussaro abbandonata ai piedi del letto. Ferenc doveva aver cercato di lavarla, prima di tornare al castello: delle croste di sangue rappreso adesso rimanevano soltanto grandi aloni rosati.

Poco lontano, schiacciato sotto le mostrine della divisa, il suo vestito di broccato nero pareva la carcassa di corvo. Erzsébet si piegò, lo raccolse e lo appese allo schienale della sedia.

Quando alzò lo sguardo, lo specchio incorniciato d'oro le restituì la sua solita immagine: una donna nel fiore degli anni, così bella da sembrare un miracolo, così pallida da somigliare a uno spettro. Erzsébet fece scorrere la mano lungo la linea pura del collo, e poi giù, fra i seni, fino a raggiungere l'ombelico. Possedeva ancora la pelle più morbida del mondo, mai intaccata dalla vecchiaia.

Erzsébet sorrise alla sua gemella riflessa e si accovacciò per agguantare la bottiglia di vino. Si sentiva tremendamente assetata, ed era sicura che anche Ferenc lo fosse.

La contessa scrutò il volto quieto del marito, così rapito dal sonno da apparire quasi morto. Era bello, bello come i figli che lei gli aveva dato, e sapeva di essere stata estremamente fortunata a divenire sua moglie.

Erzsébet trovò a tentoni i due calici d'argento da cui erano stati soliti bere prima della partenza di Ferenc, e li posò sullo scrittoio senza preoccuparsi di attutirne il rumore.

Il suono della bottiglia stappata svegliò Ferenc di soprassalto. Erzsébet lo vide guardarsi intorno confuso, per poi fissare lo sguardo sul suo corpo nudo. Immaginò che avesse creduto di trovarsi ancora in Valacchia, a combattere contro i turchi di Süleyman, e gli porse il calice pieno fino all'orlo.

«Ben svegliato, amore mio. Ti sei riposato abbastanza?»

Ferenc si schermì con una mano dal sole già alto oltre il vetro. «Che ore sono?» mugolò, la bocca ancora impastata dalla notte appena trascorsa.

«Quasi mezzogiorno.» Erzsébet aspettò che lui si fosse perlomeno messo seduto, prima di mollare la presa sul calice. La terribile arsura che le stava attanagliando la gola la faceva apparire ancora più impaziente del solito. «Bevi con me.»

Ferenc si stropicciò gli occhi e afferrò il calice dalle mani della moglie, osservando come smarrito il denso liquido vermiglio. «Che vino è?»

«È quello che i nostri campi ci hanno donato durante la tua lunga assenza, mio signore» rispose Erzsébet, improvvisando un brindisi prima di abbandonarsi all'estasi. «Beviamo alla salute dell'imperatore Mátiás e a quella del mio valoroso sposo di ritorno dalla guerra!»

Erzsébet non attese Ferenc, né si sincerò che lui stesse davvero bevendo: la sua sete era divenuta così intensa da impedirle perfino di respirare.

Favole SporcheWhere stories live. Discover now