Capitolo 17

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Capitolo 17




Una delle sensazioni più opprimenti che si potevano provare erano quelle indefinite. Quelle a cui non riuscivi a dare un nome, ma che ti rodevano un poco alla volta facendoti sentire inutile. Come quando si stava in apnea e finalmente se ne usciva, non importava quanta acqua ti fosse entrata nelle orecchie, quanto il cuore battesse forte ma solo il fatto di esserti liberata da quella sensazione intollerabile.
Questo era il mio desiderio lampante, lo stavo pensando e non mettendo in pratica. Perchè? Cos'era che mi bloccava dal ritornare in superficie?
Semplice: non riuscivo a capire dove mi trovavo, era un continuo cambiamento di colori finchè il buio non lasciò il posto ad una luce bianca spettrale che non aveva fatto altro che confondermi.
Che fossi in paradiso? Magari, ma sicuramente no.
Fu un attimo, pochissimi secondi prima che il mio corpo approfondisse l'impatto di un'altra mole che si era fiondata su di me, ma non mi fece male, mi provocò solo un sordo lamento di dolore. Insomma cosa di poco conto se ti eri appena svegliata in chissà quale luogo.
Per un istante la mia vista si appannò giocandomi strani scherzi su ciò che vedevo.
Eh che cazzo mi avevano drogata?! Non ci stavo capendo più niente.
 "Stai bene per fortuna." sussurrò una voce cristallina stringendosi ancora di più a me. Bene o ero ancora nel mondo dei vivi o quello era un angelo.
 "Chiunque tu sia scollati un attimo." replicai desiderosa di alzarmi, avevo tutto il suo peso sulla pancia e riuscivo a malapena a respirare. Di questo passo ci finivo ugualmente nella tomba.
"Scusami Melanie." la persona misteriosa si spostò velocemente. Poteva benissimo arrivare un killer e non sarei riuscita a vederlo in volto da come la mia vista continuava ad appannarsi frequentemente facendomi vedere solo squarci di dove mi trovavo. Dio che frustrazione!
Molto, ma molto lentamente mi alzai dal lettino su cui ero stesa mettendomi in posizione eretta e facendo pendere le gambe. Era infantile ma mi aiutava a non perdere la calma.

 Come odiavo il buio, odiavo anche le cose poco chiare ed era maledettamente demoralizzante viverle in prima persona.

Per una volta dopo anni avevo il caos nella mente e in quello che mi circondava.
Strofinai gli occhi con le dita come facevo abitualmente dopo essermi svegliata e lanciai un'occhiata in direzione alla persona di prima. Mi sembrava di essere impazzita siccome l'unica cosa che riuscivo a distinguere erano colori sgargianti. Ma dove cazzo ero finita?
Non sapevo cosa cavolo mi stava succedendo ma non mi piaceva, non mi piaceva per niente.
L'ultima cosa che ricordavo ero un calore troppo pressante per resistervi e una caduta poco fortunata. A cosa diavolo pensavo quando mi ero buttata da quella finestra non ne avevo idea.
Mi concessi respiri pronti e regolari facendo abituare la vista a ciò che accarezzava passivamente, un poco alla volta tutto riprese un senso, anche i ricordi che si sparpagliarono per la mente desiderosi di farmi rammentare tutto. Dalla A alla Z.
"Ehi Ron." replicai con un sorriso sghembo e una serenità allarmante.
"I medici hanno detto che non ti sei fatta niente." affermò scrutandomi come solo lei sapeva fare. Quella ragazza era fottutamente astuta e astuti erano i suoi occhi. Indirettamente mi chiedeva cosa era successo, anche se non dubitavo sul fatto che lei l'avesse già scoperto. Voleva semplicemente la mia versione dei fatti.

"Mi sono buttata da una finestra per non bruciare viva. Come non volevo far bruciare Jake ." sogghignai per quanto quella scena sembrasse assurda. Erano cose che facevo tutti i giorni, ci stava molto bene in un elenco: colazione, scuola, saltare da case infuocate, punizioni. Visto? Era tutto molto ordinario e normale.
"Ho visto la tua caduta." commentò con una solida tristezza nel tono. Che fosse incazzata?
"Mmm...ok. Jake e...la bambina stanno bene?" chiesi dimenticandomi il nome della piccola ragazza dagli occhi spruzzati di caramello.
"Anche loro ne sono usciti illesi." replicò asciutta continuando a scrutarmi, quella calma fredda non le si addiceva. Neppure un po'.
Si mossi a disagio sul lettino, tra l'altro scomodo, spostando lo sguardo sulla spoglia stanza d'ospedale. Quella stanza sprizzava più desolazione che allegria, avrei preferito svegliarmi a casa, con il raggi del sole che giocavano con i miei capelli anzichè in una stanza simile ad altre mille stanze di un noioso ospedale, con i suoi mobili e il bianco delle pareti si esprimeva come un distaccamento. Era come un bollino, un promemoria che ti ricordava il fatto che lì dentro la vita e la morte giocavano un gioco impari. Non odiavo gli ospedali- almeno quelli no- ma non ne provavo nemmeno simpatia. Era tutto così pulito da sembrare tutto finto, la luce sembrava irreale come i rumori che sentivo fuori dalla porta chiusa.
Ma era pur sempre in un ospedale che le mie speranze si erano solidificate. Era pur sempre in una clinica che mi avevano dato la conferma di una notizia rivoltante quanto rigenerante, era in un ospedale che ci avevano informato sulla morte di nostro padre. In quella finzione avevo pensato che le nostre vite sarebbero migliorate, che mamma avrebbe finalmente ripreso a vivere. Era sempre in quel luogo che tutto si era inabissato così come era apparso.

Cappuccetto rosso sangueWhere stories live. Discover now