IX

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L'acciaio cozzò con altro acciaio.

Tenevo fermamente il manico della spada sottile, fendendo la carne con la stessa semplicità con cui si taglia l'acqua se ci passi un dito in mezzo.

Non davo ai cacciatori il tempo di emettere nemmeno il suono più flebile; la lama scivolava prima sul petto, un movimento naturale quanto lo era respirare, ed infine facevo risalire la punta fino alla gola, lasciando che il sangue mi zampillasse addosso, rivestendomi del liquido rosso e limpido.

E così, un corpo dopo l'altro, raggiunsi la stanza nascosta.

Notai la serratura di metallo, le venature del legno che formavano volti deformi sulla porta.

Afferrai la pistola dalla cintola, sapendo che il silenziatore non mi avrebbe tradita, e, facendo un paio di passi indietro, presi la mira.

Sparai. La serratura saltò come un dente traballante nella bocca di un bambino.

«Mi dispiace», dissi ai cadaveri ancora caldi, lanciando loro solo una breve occhiata, «vi avevo chiesto gentilmente di farmi passare».

Mi avvicinai alla porta e quest'ultima cigolò sotto la pressione delle mie dita.

Mi guardai alle spalle, le labbra serrate in una linea netta e la lingua che sapeva di sangue.

Non vi era nessuno ad attendermi fuori dalla stanza o dentro, nessuno aveva scoperto il delitto.

Varcai la soglia e, senza far rumore, mi chiusi la porta alle spalle.

Inizialmente trovai solo un corridoio spoglio e polveroso.

La puzza di chiuso mi pizzicò il naso e si attaccò sui vestiti lordi di sangue.

L'unico suono era quello delle mie scarpe contro il pavimento.

Tac-Tac, il soffitto si faceva sempre più basso, incombendo su di me.

Tac-Tac, l'aria era irrespirabile e la polvere mi faceva lacrimare gli occhi.

Tac-Tac, mi stesi a terra e strisciai fino ad una seconda porta di legno, piccola come quella di Alice nel Paese delle Meraviglie; lo spazio era troppo stretto per afferrare la pistola così, con un movimento ben poco elegante, tentai di rigirarmi, puntando i piedi contro la lastra.

Feci forza sulla parte inferiore del corpo e colpii, colpii, colpii, fin quando la porta, tremando, non si spalancò, permettendomi di entrare.

Scivolai con cautela verso la porta ma, una volta sorpassata, mi ritrovai in una stanza dai soffitti talmente alti da farmi sentire piccola come una formica.

Mi rimisi in piedi, togliendomi la polvere di dosso, e mi guardai intorno, stupita.

Quella era, molto probabilmente, la più grande stanza che io avessi mai visto: avrebbe potuto contenere quasi tutti noi cacciatori, le pareti erano alte e spesse, il soffitto era altissimo e da quest'ultimo pendevano migliaia di acchiappasogni: riconobbi i cerchi di argento e sale, le perle di corallo e le piume bianche e delicate che scendevano, immobili, verso di me.

Gli acchiappasogni erano ovunque, dal soffitto alle pareti, perfino in alcuni angoli della stanza.

All'inizio apparivano tutti uguali: il cerchio che rappresentava la base di tutto, l'infinito e l'universo, le perle del corallo tenevano lontani gli spiriti maligni, le piume disperdevano il male. Persino la trama di fili era la stessa.

Allo stesso tempo, però, ogni acchiappasogni differiva dall'altro.

La ragnatela al centro dell'anello non era, infatti, composta da fili intrecciati ma da un unico semplice capello che, grazie alle Magi, cresceva fino a raggiungere la lunghezza adatta per lavorare la trama. Quest'ultime rimanevano sveglie giorno e notte, benedicevano l'alba e allontanavano gli spettri maligni della sera, incrociando il capello fino a disegnare un pentacolo che richiama a sé il possessore del capello ed intrappolava il demone rendendolo schiavo.

Il Rinnegato #wattys2017Where stories live. Discover now