~18~ Insomnia

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Bruciavo.
Una bara di cristallo fine, così fulgida da vincere la tenue barriera della carne, ustionando gli occhi serrati. Non importava quanto strenuamente battessi i pugni su quel vetro scintillante e mortifero, non c'era nulla che valesse a salvarmi dal tormento di fuoco che mi torturava la pelle, o urla che potessero alienare lo strazio del mio corpo sfinito.
«Hai promesso.»
E non c'era inferno che non avrei attraversato per quella voce.

Mi svegliai con il cuore in gola e il suo nome sulle labbra.
Strinsi tra le dita tremanti l'angolo gualcito del cuscino, quasi a trattenere il dolore che mi serrava le viscere, l'ultimo simulacro che mi rimanesse di lei.

Strizzai gli occhi nei buio, piano, mentre gli ultimi barlumi dell'incubo scivolavano mansueti fra le ombre della camera. Ero ancora vestita; avevo atteso il ritorno di Gareth per tutto il pomeriggio, ma con il discendere della sera la stanchezza aveva avuto la meglio sulla mia determinazione.

Non avevo fatto altro che marciare per la stanza, stringendo la piccola perla nel pugno e calpestando ogni minuto della sua assenza, scegliendo con cura le parole che avrei usato per chiedergli – no, comunicargli – che lo avrei aiutato nella ricerca dell'assassino di Armand. In cambio avrei condiviso le informazioni di cui ero venuta in possesso grazie alla provvidenziale apparizione di Sophie.
Mi era sembrato un piano perfetto.

Peccato che non fossi affatto nella posizione di trattare e che stessi tirando la corda per l'ennesima volta.

Ma lui non era tornato.
Qualunque compito avesse dovuto svolgere fuori dalla Residenza, aveva deciso di non rientrare e di recarsi invece là dove passava le sue notti: nel letto dell'Artificio senza nome.

Accesi la piccola lampada sul comodino, che sfarfallò un poco nel riscaldarsi, riempendo il silenzio di un ronzio leggero. Mi alzai dal letto, le ultime tracce di sonno ormai completamente svanite.
Oltre la finestra, il buio era completo: la notte aveva dispiegato il proprio manto su Londra, cobalto polveroso trapuntato di minuscole fiammelle d'argento.

Non c'era speranza che potessi riprendere sonno, troppi pensieri affollavano la mia mente in tumulto; così uscii dalla camera di Gareth, decisa a trovare un tomo abbastanza noioso che mi aiutasse a vincere l'insonnia.

Attraversai il corridoio deserto a piedi nudi, scivolando fra le ombre e gli scricchiolii di legno, e quando entrai in biblioteca compresi di non essere la sola ancora sveglia a quell'ora tarda.

Il fuoco del camino era acceso, regalando un'atmosfera morbida e tenui giochi di luce che s'inseguivano fra i ripiani ricolmi di alambicchi e gli scaffali, crepitando fra i ciocchi anneriti.

Seduta a gambe incrociate sul tappeto, una figura minuta faceva scivolare in diagonale un alfiere laccato di bianco su una casella occupata da un cavallo nero, acciuffandolo con fare soddisfatto.

«Per essere un soldato, manchi di tattica» commentò, allegra.

Non c'era modo di abituarsi alla bellezza di Clarisse, si poteva solo restarne abbagliati ogni volta.
I capelli chiarissimi rifulgevano dei riflessi ignei del fuoco, rendendola quasi inumana; i suoi lineamenti avrebbero portato alla più cupa disperazione qualsiasi artista, incapace di restituirli a un volgare quadrato di tela. Non era dunque strano che fosse riuscita a spingere nel baratro della follia persino il Reggente di Londra, che distruggeva senza ripensamenti qualsiasi minaccia che potesse in qualche modo scalfirla.
L'altra figura, in penombra, grugnì.

«E tu, per essere la Compagna di Ambrose, sei davvero troppo ingenua.»

La voce di Luc aveva la consueta nota ruvida, mentre la sua mano si muoveva sulla scacchiera di legno. Agguantò l'alfiere bianco e lo sostituì con una lucida torre nera.

Dies SanguinisWhere stories live. Discover now