Quattro

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Giorno 5
14 Ottobre

MAIA

L'odore di Amuchina e garze pulite appesantiva l'aria e rendeva l'ambiente quasi invivibile, terrificante.

Tutti i comandi che provai ad inviare al mio corpo rimasero sospesi nell'oblio, come se le sinapsi avessero smesso di funzionare, come se i neurotrasmettitori fossero evaporati.

Gli occhi rimasero chiusi, il dolore sveglio.

I girasoli sono di gran lunga più alti di me e stare in mezzo ad un campo pieno zeppo di questi grandi fiori gialli è equiparabile ad essere in una giungla, o almeno è lì che mi sembra di essere. Corro veloce, corro velocissima lasciando che le foglie dei fiori mi colpiscano la faccia, fino a perdere il fiato. In sottofondo una donna urla il mio nome, mia madre.

«Maia, Maia! Dove stai andando? Torna subito indietro! Maia!»

Continuo a correre veloce, velocissima, anche se mi brucia la gola e il fango entra nelle scarpe, è bellissimo il modo in cui sento che la vita è tutta lì, fra quei girasoli, sotto il sole cocente di un agosto al tramonto. La mamma che urla è solo un pensiero secondario, come del resto la gola o il fango.

Il vento mi taglia il viso già sporco muovendo i miei capelli castani, rido e immagino di essere in un libro, in un film o in una di quelle serie TV spagnole che guardava sempre la mamma mentre stirava. Qualcosa mi fa scivolare a terra a pancia in giù, la faccia contro le erbacce ruvide, forse è stata una radice, forse un legno o forse il fango.

Qualcosa sotto di me inizia a muoversi, prima piano per liberarsi del mio peso e poi veloce per scappare. Sento quella cosa viscida sfilarmi da sotto la pancia e poi un paio di denti conficcarsi dentro al braccio. Il dolore lancinante inizia ad espandersi verso l'avambraccio, la mano, la spalla. Quasi me lo sento scorrere nelle vene quel veleno amaro. Cerco di afferrare l'animale con l'altra mano e strapparlo via, lontano dalla mia carne, lontano dal mio sangue. Urlo sentendo i denti affilati sfilarsi dal mio braccio e lacerare la pelle mentre il liquido scarlatto macchia il mio vestitino rosa e giallo. Sento le foglie muoversi, qualcuno corre verso di me e la mamma continua ad urlare il mio nome ma io inizio a sprofondare nel fango che mi bagna le caviglie, i polpacci, i capelli, le braccia. La terra bagnata entra a contatto con la ferita aperta, brucia, brucia tantissimo. Questa volta non urlo perché le labbra non si aprono, il mio corpo è bloccato e anche respirare mi fa male. Il fango accumulato sul mio petto mi soffoca, mi toglie il respiro rendendo difficile il sollevamento della mia cassa toracica. Sarei morta lì, ricoperta da una melma schifosa fatta di fango, erba e sangue. Lo so, perché te lo senti quando stai per morire. Gli occhi rimangono aperti a guardare l'ultimo raggio di sole, la mamma è lontana e i corvi sempre più vicini.

Sentii subito il rumore della grandine sbattere contro la finestra.

Laverà via il nostro sangue, mescolato alla polvere e alla sabbia. Almeno non ci camminerà nessuno sul nostro sangue. Che tanto funziona sempre così, ti camminerebbero anche addosso se potessero.

Una mano strinse il mio polso. Angelica. Ero sicura che fosse lei, le mani della mamma erano più ruvide, più consumate dalla varichina e dal sapone per i piatti.

Lottai contro il sonno per l'ennesima volta, subendo una nuova sconfitta.

Il bisogno di comunicare a tutti che stavo bene era diventato un peso enorme, anche da mezza morta. Il pensiero di mamma e Angelica sedute a piangere accanto al mio letto mi faceva quasi contorcere dalla rabbia, non dovevano stare lì con me eppure c'erano e me le sentivo quasi addosso.

Riprovai ad aprire gli occhi promettendo al Signore che una volta sveglia avrei mandato via le due donne e, mentre le palpebre si alzavano lentamente e a scatti, vidi per qualche secondo tutto azzurro, la luce poteva finalmente entrare.

ADESSO CHE NON CI SEIOnde as histórias ganham vida. Descobre agora