Dal diario di Delise Shelley

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Mio fratello era nato morto. Mi ricordo bene il giorno del parto. Avevo trovato mia madre, Lorien Cote, in una pozza di sangue.

«Va' a chiamare la levatrice, Del», mi aveva ordinato, debolmente.

E io ero uscita di casa correndo. La levatrice abitava a qualche isolato di distanza. Era una donna vecchia, col volto solcato di rughe, ma gli occhi vispi come quelli di un falco.

«Hai i soldi per pagarmi, bambina?» Fu questa la prima domanda che mi rivolse.

Offrii alla levatrice il bracciale in bronzo della mamma. Era stato l'ultimo regalo che le aveva fatto mio padre. La donna lo accettò e si affrettò a seguirmi fino a casa, recuperando una sfilza di asciugamani puliti e catini di zinco.

Assistetti al parto. Ricordo ancora oggi le urla strazianti della mamma, il suo viso arrossato, contratto dalla sofferenza. Mi tenevo a distanza, vicino all'angolo destro della camera, e osservavo la scena con gli occhi pieni di pianto. Desideravo che finisse. Desideravo che mia madre stesse di nuovo bene. Quella creatura dentro di lei le stava facendo solo del male. Odiai mio padre per averla messa incinta, per averla condannata a soffrire in quella maniera.

Everett, mio fratello, nacque in completo silenzio. La levatrice lo prese tra le braccia e lo esaminò.

«Non respira.»

Mia madre spalancò la bocca, come per urlare. Ma non urlò. Mai avevo visto occhi così pieni d'orrore.

Everett venne scosso con violenza, rivoltato a testa in giù per farlo piangere, per farlo respirare. Dopo qualche minuto di un silenzio colmato soltanto di singhiozzi, udimmo tutte e tre il pianto acuto del bambino.

«Dio, ti ringrazio!»

La levatrice lavò il neonato e lo fece distendere tra le braccia di mia madre. Era finita, finalmente, pensai. Stavano bene. Stavano tutti bene.

Ma mi sbagliai.

Dopo quattro ore dal parto, la mamma si accasciò sul cuscino e chiuse gli occhi, senza svegliarsi più.

La mamma venne seppellita in una fossa comune. Tutto quello che rimase di lei fu una croce di legno con inciso sopra le sue iniziali.

Erano passate ore prima che qualcuno venisse a prenderla. La levatrice era uscita per andare a chiamare qualcuno, lasciandomi sola con il corpo senza vita di mia madre e con quella creatura che aveva appena dato alla luce. Stava strillando, insistente. Le sue urla erano così laceranti che mi fecero male alle orecchie. La levatrice aveva appoggiato mio fratello in fondo al letto, accanto ai piedi ormai freddi della mamma. Rimasi a fissarlo.

«Guarda cosa hai fatto. Hai ucciso nostra madre. Lo sai che gli assassini vengono giustiziati? Li ho visti in piazza. Mettono loro un cappio al collo e li impiccano.»

Feci qualche passo verso di lui, avvolta da una rabbia tale che mi faceva tremare tutta. Lui continuò a piangere convulsamente, senza badare a me. Si dimenava con forza. Mi affrettai a coprire il suo corpicino con la coperta, consapevole del freddo che faceva in quella stanza. Il volto della mamma era rimasto contratto in una smorfia di dolore. Non era piacevole alla vista. I suoi occhi cerulei erano rimasti socchiusi, rivelando uno sguardo vuoto. Mi sporsi verso di lei e tentai di chiuderle sia gli occhi che la mascella semiaperta. Eppure, quest'ultima si riapriva, rivelando i denti storti, ma sani. Cercavo di far sembrare che dormisse, ma non ci riuscii. Era tremendamente evidente che fosse morta. Non so esattamente quanto tempo rimasi lì da sola assieme a mio fratello. Tuttavia, mi parvero ore.

Poi, delle persone entrarono in casa. C'era la levatrice, tre uomini che avrebbero portato via il corpo di mia madre e Theresa Oldman. Quest'ultima prese in braccio il piccolo neonato, lanciò un'occhiata furtiva alla mamma e poi posò lo sguardo su di me.

«Andiamo», disse, con irritazione.

«No. Non voglio lasciare la mamma.»

«Andiamo, ti ho detto!»

Ci portò a casa sua. La donna aveva appena avuto il sesto figlio, perciò era in grado di allattare anche mio fratello. La casa era così rumorosa che ne rimasi disorientata. I bambini continuavano a fare chiasso, scorrazzavano su e giù e non mi davano pace.

«Come si chiama?» mi chiese ad un certo punto la signora Oldman, mentre si scopriva il seno e lo avvicinava alla bocca del neonato.

A quella domanda fui impreparata. La mamma non aveva mai accennato nulla al riguardo.

«Non lo so.»

«Come si chiama suo padre?»

«Everett.»

«Everett Shelley», annuì lei. «Andrà bene.»

«Che cosa ci accadrà adesso?» chiesi.

La donna rimase impassibile a quella domanda. «Non posso tenervi con me. In questa casa c'è già un gran da fare. Cercherò vostro padre e gli dirò di venirvi a prendere, dovunque egli sia.»

«Papà è partito con la marina inglese otto mesi fa. Non è più tornato, da allora.»

«Assumeremo qualcuno per trovarlo.»

Annuii, non troppo convinta. La signora Oldman mi offrì un piatto di minestra e dopodiché mi disse di andare a riposare. Everett rimase con lei. Non mi fu dato un vero e proprio letto. I letti erano tutti occupati e non c'era spazio anche per me. Dovetti accontentarmi di un cubicolo nel sottoscala, dove il signor Oldman aveva steso un po' di pagliericcio e una coperta sul pavimento, lasciandomi una candela mezza consumata.

Non versai neanche una lacrima, quella notte. Avevo sempre pensato che piangere era privo di utilità. Everett, al contrario, non la smetteva di strillare. Nessuno riuscì a chiudere occhio.

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