CAPITOLO XIII

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Nei giorni che seguirono feci la conoscenza di altri membri dell'equipaggio di Arenis. C'era Naade, l'uomo che mi aveva accompagnata fino agli alloggi del Capitano il primo giorno. Le cicatrici che aveva sul volto mi impressionavano, ma nonostante l'aspetto che incuteva timore, aveva una personalità molto espansiva. Non avevo mai conversato con una persona nera in vita mia. Gli chiesi da dove provenisse, ma egli si rifiutò di parlare del suo passato. Poi c'era Dilthey, un uomo sulla trentina, che durante una pausa pranzo mi invitò a mangiare assieme a lui e a Jackie Jay, un ragazzo con un perenne sorriso dipinto sulle labbra. Mi ero raccomandata di non dare confidenza a quelle persone, perciò rifiutai il loro invito. Dilthey cercò di insistere, ma notando la mia risolutezza scrollò le spalle e fece un lieve cenno con il capo.

«Perdonatemi se vi ho disturbata, signorina, ma pensavo sia giusto avvertirvi che mancano meno di due giorni a Charlestown. Sarete con la vostra famiglia a breve», disse prima di congedarsi. Mi salutò con fare garbato, facendo un piccolo inchino con la testa.

«Terra!»

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«Terra!»

Un urlo squarciava la quiete mattutina. Mi destai con quella parola impressa nella mente. Terra. Terra. Quando realizzai il suo significato balzai in avanti, mettendomi seduta sul letto. Il sole mi colpii in pieno viso. I suoi raggi torpidi penetravano attraverso l'oblò. Faceva caldo. Avevo la camicia da notte sudata. Lanciai un'occhiata fuori, ma non vidi nient'altro che una distesa d'acqua.

Dovevo uscire.

Mi vestii il più in fretta che potei, lavandomi con l'acqua fredda e raccogliendomi i capelli in uno chignon frettoloso. Mi precipitai all'esterno e per prima cosa vidi un filo verdastro all'orizzonte. Eravamo ancora lontanissimi dalla terraferma, eppure era là. E sentii il sollievo invadermi completamente. La ciurma si comportava come al solito. Sulle loro facce non aleggiava nessuna espressione entusiasta. Corsi verso prua, fino a raggiungere la punta della nave. Restai ad osservare la Galatea scivolare verso quel nuovo continente, verso la mia nuova casa. Loro erano là e mi stavano aspettando. Non avevo mai viaggiato così lontano, sebbene da bambina avevo espresso più volte il desiderio di accompagnare mio padre nelle sue spedizioni in Africa, ma non mi fu mai concesso. Adoravo scartare i doni che ci portava. Doni esotici, di culture completamente differenti dalla nostra. Chissà che cosa avrei trovato in America?

L'acqua del mare era limpida e lasciava trasparire il colore del fondo. La costa si stava avvicinando sempre di più.

«Quinn! Quinn! Che diamine stai facendo? Perché la Galatea non batte bandiera inglese? Vuoi che ci sparino?!»

Riuscii sempre più distintamente a vedere gli alberi, le strade e le case di Charlestown. Il terreno vicino alla città era sabbioso, ma più lontano era argilloso e paludoso. Abbondava di bei fiumi navigabili, grandi edifici in pietra con portici con grandi pilastri e campanili. Un suono di campane si spargeva nell'aria. Man mano che il porto si faceva vicino, udii un grande schiamazzo. Era gremito di persone. Tra la folla vidi tantissimi volti. Volti sconosciuti di donne, uomini e bambini. Oh, e quanti bambini! Giocavano lungo il canale, rincorrendosi e urlando spensieratamente. Gli edifici lungo il porto erano ostelli, camere in affitto, taverne e locande. Dinanzi quest'ultime c'erano lunghi tavolacci di legno per permettere ai clienti di godersi la giornata di sole e la frenesia del centro di Charlestown. Alcune persone, che avevano notando la Galatea arrivare, si erano soffermate sul molo per vedere l'attracco. Il gruppetto era formato perlopiù da bambini che esclamavano e puntavano l'indice verso di noi, eccitati.

Il Tesoro del MareWhere stories live. Discover now