Dentro un capolavoro

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Mi sono lasciata prendere la mano, e pubblico questo racconto breve che ho preparato per l'ultima lezione di un corso di scrittura creativa che sto seguendo. Praticamente è ancora una bozza, perciò se vedete errori segnalate.
Mi sono divertita davvero tanto a scriverlo, perciò sai mai che mi venga in mente di inventarne altri! 

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Ogni volta che la osserviamo, al di là della stanza, ci troviamo a chiederci cosa vedano tutti in lei. Non riusciamo a comprendere il perché di tanta fama, il perché di tanta estasi da parte di ogni turista che entra qui al Louvre.

Ci chiediamo quale sia il motivo, ma non sappiamo risponderci. Perché la Gioconda è l'attrazione principale di questo antico palazzo adibito oggi a ospizio di opere d'arte? Perché nessuno guarda noi? Siamo opera del Veronese! La nostra tela è un miracolo, nel vero senso del termine: le "Nozze di Cana", il quadro più grande della stanza (quasi sette metri per quasi dieci). Eppure, tutti i meravigliati visitatori che passano per questo luogo vanno direttamente da Monna Lisa, si lasciano rapire estasiati dal quel sorriso (enigmatico? Ma dove?) e da quegli occhi profondi che sembrano seguirli oltre la cornice. In realtà la Monna guarda verso di noi, poveri protagonisti di un'opera snobbata da ogni essere vivente: ci guarda con superiorità, ci deride quasi, tronfia della sua notorietà.

Non molto tempo fa, prima che quel Vincenzo Peruggia rubasse la Gioconda, tutti ammiravano noi. Ammiravano me, Gesù Cristo, seduto nel mezzo di questo festoso banchetto. Ammiravano le splendide collane e i meravigliosi abiti delle dame sedute qui attorno. Ammiravano i boccali di vino trasparenti, lo stuzzicadenti che la donna lì in fondo, alla mia destra, tiene in mano. Ammiravano il gattino che gioca con il vaso lì davanti. Dopo il furto, improvvisamente, nessuno ci guarda più. Non interessa più il delicato e sottilissimo tocco con cui Paolo (Caliari, il nostro creatore) ci ha dipinti su questa tela, non interessano più colori e sfarzo, grandezza e buona fattura. Tutti vanno lì, dalla Lisa, a guardarla e a farsi guardare con quel sorriso strano che li sbeffeggia.

«Iesus! Iesus, guarda qui!»
Mi volto a destra e osservo mia madre sorridere, felice, verso l'esterno della tela.

Seguo il suo guardo, ed ecco: la vedo. È arrivata assieme ad altri ragazzi, che però si stanno già spostando verso la Gioconda e la massa di turisti che la circonda. Lei invece si è fermata qui sotto, e in questo istante mi sta guardando. Ha gli occhi chiari, di un celeste tenue come quello del cielo dietro di me, i capelli raccolti in una coda, un vestito blu fino al ginocchio, una macchina fotografica a tracolla. Mentre la osservo, lei continua a ricambiare il mio sguardo: mi sorride, poi sposta le pupille verso destra, e poi a sinistra, in alto, in basso. Sembra scrutare ogni angolo di questo posto, e mi fa quasi temere che sia rimasta della polvere su qualche mattonella a definirmi un pessimo padrone di casa.

La ragazza sorride ancora, raggiante; poi corre verso gli amici con cui è arrivata, afferra uno spilungone riccio per il braccio e lo trascina qui, davanti a noi. Gli mostra tutto quello che ha osservato, indicando con l'indice gli sposi alla mia destra, Tiziano e Veronese qui sotto di me, le colonne corinzie che si protendono verso il cielo. Gli racconta la nostra storia, e lo fa con occhi pieni di orgoglio e meraviglia. Tutto, in lei, mostra meraviglia, comprensione, stupore.

Mi si riempie il cuore, a vederla così felice, e non posso evitare di farmi venire in mente un'idea irragionevole ma entusiasmante. Mentre il suo amico ammira il gattino alle prese con il vaso, io le faccio l'occhiolino, invitandola ad avvicinarsi con l'indice. La ragazza sbarra gli occhi, sconvolta, poi scuote la testa e si avvicina al compagno.

«Iesus, che fai?» mormora mia madre. «Non ti cacciare nei casini.»

Io scuoto le spalle, e quando la visitatrice mi scruta con la coda dell'occhio, quasi cercando di capire se la sua è stata un'allucinazione, io la saluto con la mano. Lei ha un sobbalzo, mi fissa come se fossi un drago, e quando il suo amico le chiede cosa non va riesce soltanto a scuotere la testa, incredula.

Eh sì, ho salutato proprio te.

Il ragazzo torna verso gli altri amici, dalla Lisa, ma vestitino blu rimane qui davanti, credendosi ancora in preda ad assurdi deliri. Io non riesco a lasciarla così, perciò mi alzo e abbandono il mio posto. Un piccolo baccano anima la sala del banchetto, ma Paolo fa un cenno a un nobile di cui non conosco il nome e quello si posiziona al mio posto, fingendosi con tutta tranquillità Gesù Cristo, completo dell'aureola in oro zecchino che ho lasciato lì per non doverne trascinare in giro l'immane peso. Paolo ha capito quello che voglio fare, e mi invita a non fermarmi; lo ringrazio: è lui il vero padrone di casa, qui. Mi acquatto dietro gli invitati e piano piano scivolo fino alla cornice. La giovane turista, è chiaro, ormai pensa di aver mangiato dei funghi allucinogeni a colazione: ha iniziato a sudare, e continua a guardarsi intorno, impaurita.

Ora sono sul bordo: mi sposto di lato, nascondendo il mio corpo dietro una colonna, e la saluto di nuovo. Lei si porta una mano al petto, si volta a destra e sinistra, poi ride (almeno, mi pare che sia ciò che sta facendo, dato che non riesco a percepire alcun suono fuori da qui) e si indica con un dito. "Io?" mormorano le sue labbra.

Le faccio cenno di sì, e poi sporgo lentamente la mano al di fuori del quadro. Paolo mi consiglia di fare in fretta, così spingo le mie dita a oltrepassare il sottile muro di lucida vernice che ricopre tutti noi: fuori dalla cornice si staglia ora una mano bidimensionale, sottile come una foglia, con le pennellate ancora ben visibili. La ragazza mi guarda negli occhi, tutt'a un tratto seria. Io annuisco, e finalmente la sua mano stringe la mia. La tiro di scatto verso di me, sentendo un calore che avevo dimenticato riempire ogni singola fibra della mia pelle: è così bello il contatto umano.

In un balzo lei è già al di qua, e adesso ride, non solo con la bocca ma anche con gli occhi, ancora più luminosi ora che hanno preso la tinta del celeste di Paolo. E il suono della sua risata, cristallino, quasi paradisiaco, mi riempie il cuore e le orecchie, facendomi dimenticare tutti quelli che sono passati di qui senza vederci.

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