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Subito la porta dietro la sbarra si aprì ed entrarono due gendarmi col berretto e le sciabole sguainate, e dietro di loro prima un' imputata, una donna bionda, e poi due uomini.

Il primo entrò senza guardare i giudici e il pubblico, osservava accigliato attentamente la panca intorno a cui stava girando. Alla fine vi si sedette composto, a un'estremità, lasciando il posto agli altri.

Dopo di lui entrò una donna, anche lei in divisa da detenuta, sembrava assolutamente calma.

Il terzo imputato era Eren Jeager.
Non appena entrò, gli occhi di tutti si volsero verso di lui e a lungo non si staccarono dal suo volto bianco dagli occhi lucenti, verdi brillanti. Quando si fu seduto, quasi sentendosi in colpa si voltò in fretta, si riscosse e puntò gli occhi sulla finestra dritto dinanzi a sé.
Il presidente aspettò che gli imputati prendessero posto, e non appena lo Jeager si fu seduto si rivolse al cancelliere.

Ebbe inizio la consueta procedura: si elencarono i giurati, si discusse sugli assenti, s'inflisse loro un'ammenda, si decise su coloro che avevano chiesto di essere esentati e si sostituirono gli assenti con dei giurati di riserva. Poi il presidente piegò dei bigliettini, li
mise in un vaso di vetro e dopo essersi rimboccato un po' le maniche ricamate dell'uniforme, con gesti da prestigiatore cominciò a estrarre un bigliettino dopo l'altro, a spiegarlo e a leggerlo. Poi il presidente si risistemò le maniche e invitò il sacerdote a condurre i giurati al giuramento.
Il sacerdote, dalla faccia giallastra in tonaca nera, con una croce d'oro sul petto si mosse verso il leggio.

Alcuni con le dita riunite come voleva il sacerdote, bene in alto e con sicurezza, quasi con un
piacere particolare; gli altri quasi controvoglia, insicuri, giurarono. 

Dopo il giuramento il presidente invitò i giurati a eleggersi un capo. I giurati si alzarono e, accalcandosi, passarono nella camera di consiglio, dove quasi tutti presero subito una
sigaretta e si misero a fumare.
Tutto andò senza intoppi, ben presto anche non senza solennità, e questa esattezza e solennità facevano evidentemente piacere ai partecipanti, confermando in loro la coscienza di svolgere un serio e importante compito sociale. Tale era la sensazione che provava anche Levi.
Non appena i giurati si furono seduti, il presidente tenne loro un discorso sui loro diritti, doveri e responsabilità. Pronunciando il suo discorso, il presidente mutava continuamente posizione: ora si appoggiava sul gomito sinistro, ora sul destro, ora sullo schienale, ora sui braccioli della poltrona, ora pareggiava i bordi dei fogli, ora accarezzava il tagliacarte, ora tastava la matita.
I loro diritti, secondo le sue parole, consistevano nella facoltà di interrogare gli imputati tramite il presidente, avere carta e matita ed esaminare i corpi del reato. Il dovere
consisteva nel giudicare non erroneamente, ma secondo giustizia. E la responsabilità consisteva nell'essere soggetti a sanzioni in caso d'inosservanza del segreto di consiglio e di contatti con estranei.
Tutti ascoltavano con reverenziale attenzione.

Terminato il suo discorso, il presidente si rivolse agli imputati.

Reiner Braun, si alzi, - disse.

Reiner scattò in piedi prontamente. 

- La sua condizione?
- Contadina.
- Di quale governatorato, distretto?
- Governatorato di Tula, distretto di Krapivno, comune di Kupjansk, villaggio di Borki.
- Quanti anni ha?
- Trentatrè
- Coniugato?
- Nossignore.
- Qual è la sua occupazione?
- Inserviente di corridoio all'albergo «Mauritania».
- È mai stato sotto processo?
- Non sono mai stato sotto processo,
- Ha ricevuto una copia dell'atto d'accusa?
- Sì.
- Si sieda. Annie Leonhart - il presidente si rivolse all'imputata
successiva, senza guardarla e consultando il foglio che gli stava davanti.

La Leonhart aveva ventitré anni, era una borghese di Kolomna e anche lei
lavorava come cameriera all'albergo «Mauritania». Non era mai stata sotto processo o inchiesta, aveva ricevuto la copia dell'atto d'accusa. La Leonhart dava le sue risposte senz'ombra di esitazione. Si sedette subito, senza aspettare che glielo dicessero, non appena finirono le domande.

- Il suo nome? - il presidente si rivolse al terzo imputato con una certa
particolare amabilità. - Bisogna alzarsi, - aggiunse in tono carezzevole, notando che il ragazzo restava seduto. Eren si alzò con un rapido movimento e con un'espressione di disponibilità, guardava dritto in faccia il presidente con i suoi occhi verdi, sorridenti.
- Come si chiama?
-  Ljuban Jeager, - disse in fretta.
Intanto Levi, guardava gli imputati via via che venivano interrogati. - Non può essere - pensava, senza staccare gli occhi dal volto dell'imputato, -
ma come Ljuban?, - pensò quando ebbe udito la sua risposta.
Il presidente voleva continuare con le altre domande, ma il giudice con gli occhiali lo fermò, sussurrando arrabbiato qualcosa. Il presidente fece un segno di assenso col capo
e si rivolse all'imputato:
- Come Ljuban? - disse. - Qui risulta un altro nome.
L'imputato taceva.
- Vi sto domandando qual è il suo vero nome.
- Il nome di battesimo? - chiese il giudice arrabbiato.
- Prima mi chiamavo Eren.
- Non può essere - continuava a dirsi Levi, e intanto sapeva già senz'ombra
di dubbio che era lui, quello stesso ragazzl, pupillo o cameriere, di cui un tempo era stato innamorato, proprio innamorato, e che poi in una sorta di folle annebbiamento aveva sedotto e abbandonato e di cui in seguito non si era più ricordato, perché quel ricordo era troppo tormentoso, lo accusava troppo chiaramente e dimostrava che lui, così orgoglioso della sua correttezza, aveva agito con quel ragazzo in maniera non solo scorretta, ma addirittura infame.

Sì, era lui. Adesso egli vedeva chiaramente quella peculiarità esclusiva, misteriosa, che distingue ogni viso dall'altro, lo fa particolare, unico, irripetibile. Nonostante il pallore innaturale, questa peculiarità, cara, esclusiva peculiarità, era in quel
viso, nelle labbra, negli occhi e soprattutto in quello sguardo ingenuo e sorridente e nell'espressione di disponibilità non solo sul volto, ma in tutta la persona.

- È così che doveva dire, - di nuovo con particolare dolcezza disse il presidente. - E il patronimico?
- Sono figlio illegittimo, - disse Eren.
- E cosa avrà commesso? - continuava intanto a pensare Levi, respirando a
fatica.
Condizione?
- Borghese.
- Occupazione?
Eren taceva.
- Che lavoro faceva? - ripeté il presidente.
- Ero in una casa, - disse.
- In quale casa? - domandò
severamente il giudice con gli occhiali.
- Lo sa anche lei in quale, - disse il giovane, sorrise e, dopo una rapida occhiata in giro, fissò di nuovo il presidente.

C'era qualcosa di così insolito nell'espressione del viso, di così terribile e patetico nel significato delle parole pronunciate da lui, in quel sorriso e in quella rapida occhiata che aveva lanciato a tutta la sala, che il presidente chinò il capo, e nell'aula per un momento scese un assoluto silenzio. Il silenzio fu interrotto dalla risata di qualcuno del pubblico. Qualcuno si mise a zittire. Il presidente sollevò il capo e proseguì l'interrogatorio:

- È mai stato sotto processo e inchiesta?
- Mai, - disse piano Ersn, sospirando.
- Ha ricevuto una copia dell'atto di accusa?
- Sì.
- Si sieda, - disse il presidente.
L'imputato si sedette, senza distogliere gli occhi dal presidente.
Iniziò l'appello dei testimoni, il loro allontanamento, la decisione sul perito medico- legale e il suo invito nell'aula delle udienze. Poi si alzò il cancelliere e cominciò a leggere
l'atto d'accusa. Molti trattennero diverse volte lo spasimo iniziale di uno sbadiglio.

Degli imputati, Annie sedeva
perfettamente tranquilla e diritta.
Eren ora sedeva immobile, ascoltando e guardando il lettore, ora trasaliva e
sembrava voler fare delle obiezioni, arrossiva, e poi sospirava gravemente, cambiava posizione delle mani, guardandosi intorno, e di nuovo fissava il lettore.

Levi sedeva in prima fila sulla sua alta sedia, secondo dal fondo, guardava la Eren e nella sua anima si svolgeva un lavorio complesso e tormentoso.

Resurrezione (Ereri fanfic)Where stories live. Discover now