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"Buongiorno Han, ti ho portato la colazione e le tue medicine" salutò cordialmente l'infermiera, osservando il ragazzo, che come tutte le mattine stava rannicchiato sul letto, con la schiena appoggiata all'angolo del muro osservando attraverso la finestra il mondo esterno.La luce della mattina entrava spezzata dalle inferriate di sicurezza fissate nei mattoni, le tende erano scostate e la luce sulla scrivania era ancora accesa.

"Posso spegnerla?"

Il ragazzo si voltò annuendo, guardando la donna dai capelli biondi premere il pulsante per spegnere la piccola luce. Poi quest'ultima con cautela si avvicinò al ragazzo, tenendo in mano un bicchiere d'acqua e nell'altra un altro più piccolo contenente alcune pillole colorate.

Puntò gli occhi vuoti su quelli verdi dell'infermiera che sorrideva gentile, prendendo prima il bicchierino contenente le pillole, gettandosele velocemente in gola e poi l'acqua.

"Mangia qualcosa ok? Tra poco passerà il nuovo medico che ti è stato assegnato. Ci vediamo dopo"

Uscì dalla stanza, chiudendo la pesante porta.

Quando la serratura scattò Han scese dal letto cercando di non fare rumore, entrò nel bagno della stanza, chiuse la porta, che ovviamente non era fornita di chiave.

Si avvicinò alla tazza di ceramica bianca, inginocchiandosi davanti ad essa e senza indugi si infilò due dita in gola, stuzzicando senza grazia l'ugola, rigettando gli psicofarmaci.

Non emise un solo gemito, un mugolio o un qualsiasi suono che potesse allarmare qualche medico o infermiere che passavano per i corridoi spogli dell'ospedale.

Tirò lo sciacquone eliminando le prove, si alzò da terra e poggiò le mani sul lavandino del piccolo e grigio bagno. Si sciacquò la bocca e tornò nella sua stanza, osservando il vassoio di cartone con i piatti e le posate di plastica. Un bicchiere dello stesso materiale conteneva il suo thè deteinato mattutino, nel piattino vi erano una manciata di biscotti misti, nell'altro una fetta di pane bianco con a fianco un cucchiaio di marmellata.

Osservò la sua colazione con disappunto, inarcando un sopracciglio e arricciando le piccole labbra.

"Che schifo"

Tornò a sedersi nel suo angolo, ignorando i morsi della fame che lo torturavano fino a farlo piegare su quelle stesse coperte.

Percorse con le dita la spalliera di ferro del letto, cercando di distrarsi, balzando spaventato quando qualche paziente si dimenava e urlava come impossessato dal diavolo.

Nonostante fossero ormai tre anni che si trovava in quella stanza, avvolto da quelle mura bianche e asettiche, dove oltre al letto, ad una scrivania con una sedia vi era solo una piccola libreria semivuota, dove teneva i libri che si era fatto portare dal prete che un paio di volte a settimana passava a fare visita gli internati.

Quei libri erano l'unica cosa che avesse di suo in quel luogo. Non aveva nemmeno degli abiti, era obbligato a portare il camice tutto il tempo.

Nessuno tranne i dipendenti potevano avere degli abiti propri, si sentiva come spogliato della sua identità, della sua umanità. Ma ormai ci aveva fatto l'abitudine, anzi ora lo trovava quasi confortante... lui era Han Jisung ... ma in quel luogo era soltanto il paziente della stanza 21.

Non avevano più importanza nome e cognome, ceto sociale, età, sesso... solo la tua cartella clinica che veniva aggiornata e controllata quotidianamente.

L'unica cosa di cui sentiva realmente la mancanza era la musica.

Spesso si sedeva sulla sedia e poggiava le mani sulla scrivania, chiudendo gli occhi immaginava di suonare il suo amato pianoforte. Faceva scorrere le morbide dita su quel legno freddo e graffiato, ripetendo i gesti che compieva quotidianamente sui tasti bicolore dello strumento, suonando mentalmente la melodia che più amava.

Ventuno Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora