otto

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Grandi tette non fanno una grande donna

Vanna Woodhall era, da sempre, il mio incubo peggiore.

I suoi lunghi capelli fin troppo rossi, il seno fin troppo prosperoso, la pancia lasciata fin troppo scoperta da una maglia fin troppo corta e da leggins fin troppo a vita bassa, che le stringevano quelli che parevano più tronchi d’albero che gambe, la voce fin troppo gutturale per una ragazza, i suoi modi fin troppo rudi. Tutto ciò aveva popolato i miei incubi dall’età di sei anni, quando sciaguratamente ero capitata in classe con lei, banco centrale in seconda fila, bersaglio dei suoi scherzi e dei suoi pugni, che avevano causato non vari problemi, sia fisici che mentali.

Vanna Woodhall era un mostro, nel vero senso della parola, ma al contrario della qui presente Apple Tomlinson, era una ragazza - meglio, una mucca - che si sapeva far rispettare. Più a fatti che a parole. Nessuno aveva mai osato sfidarla, più di ogni altra cosa dopo che era riuscita a battere a braccio di ferro il nostro maestro, che per stazza poteva concorrere con Babbo Natale e Beth Ditto. Forse l’aveva lasciata vincere, ma dopo quella dimostrazione di forza nessuno aveva osato schierarsi dalla mia parte, per difendermi, per paura di ritrovarsi per terra sanguinanti.

Non che fosse mai stata così violenta da ferire qualcuno, ma ricordo ancora tutti i lividi che nascondevo a mia madre, dicendole che ero semplicemente caduta mentre giocavo o avevo colpito il braccio contro un armadio.

Passare un anno seduta allo stesso banco di Vanna Woodhall era stata la mia inconsapevole condanna a morte, fino a quando non finii le elementari e le nostre strade si divisero, o meglio, lei trovò qualcun altro a cui dare fastidio.

Perciò, ormai sicura di non dover più temere nessuna ripercussione a causa sua, mi ero quasi spaventata nel ritrovarmela davanti nel bagno delle ragazze, faccia a faccia con il suo muso da maiale.

Non che fosse una brutta ragazza, aveva dei grandi occhi azzurri e un sacco di lentiggini e, nel tempo, aveva scoperto il suo lato femminile, che ancora cercava di predominare ed imporsi su quello rude e quasi maschile che aveva sempre prevalso negli anni precedenti. E poi aveva delle tette… enormi, di cui andava incomprensibilmente fiera, mostrandole al mondo come fossero opere d’arte. Ogni qual volta che abbassavo lo sguardo sulla mia seconda scarsa, non potevo che rassegnarmi alla dura realtà; madre natura non era stata gentile nei miei confronti, dovevo farmene una ragione.

«Ero sicura di trovarti qui.» mi disse, appoggiando le mani sui fianchi con un sorriso sarcastico dipinto su quel volto da porcello.

«Io?» domandai tremante, indicandomi con l’indice. Lei alzò gli occhi al cielo, allargando le braccia.

«Vedi qualcun altro, Tomlinson?» domandò retorica, pronunciando il mio cognome come fosse un insulto. Deglutii, troppo impaurita per ribattere. I ricordi delle elementari tornarono alla mente, tanto che quasi non caddi ai suoi piedi in lacrime, implorandola di non farmi del male.

«No, in effetti…» sussurrai, dandomi della stupida da sola.

«In effetti - riprese lei il discorso, troncando il mio - Credo che tu debba fare attenzione a quello che fai, mocciosa.»

Le volevo far notare che, in realtà, avevamo la stessa età e che perciò non aveva nessun diritto di chiamarmi in quel modo, ma sapevo che una parola sgarbata nei suoi confronti e mi sarei ritrovata con la testa nel gabinetto.

«Che cosa intendi, Vanna?» domandai cercando di tenere un tono neutro, che non rasentasse il cortese, ma nemmeno fosse troppo seccato tanto da farla spazientire.

«Harry - disse soltanto, facendomi irrigidire - Mi è giunta voce che siete usciti insieme.»

«No, assolutamente no!» ribattei subito, tappandomi la bocca subito dopo.

Just A GameWhere stories live. Discover now