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Mise il piede in fallo e la roccia franò. Sentì la moglie e la figlia urlare per la paura, mentre lui cadeva nel vuoto. Poi avvertì il vento che gli arrivava forte alle spalle, e capì che era in caduta libera verso un baratro nero.

"Sto per morire" pensò Alessandro Malfenti " è finita".

Non gli andava neanche di guardare in basso, per vedere quanto gli restava prima di sfracellarsi sulle rocce. Sapeva che c'era un ruscello in fondo al baratro da qualche parte, ma cadendo a quella velocità sarebbe morto lo stesso.

Restò quindi così, inerte, col vento che gli aggrediva i capelli e la schiena con forza, sempre più forte, aspettando che alla fine gli venisse incontro dell'acqua con la forza di una roccia.

Non andò così.

Lui non lo seppe mai, ma quando si trovava a non più di dieci metri d'altezza un ramo un po' lungo lo attraccò alla maglietta, lacerandola e facendogli anche a brandelli la parte inferiore della tuta che indossava. Il ramo non riuscì a frenare la sua caduta, ma la rallentò notevolmente, e gli fece cambiare traiettoria, spendendolo nel ruscello pochi metri più giù.

Alessandro cadde nella corrente, ancora intero. Provò a rimettersi in piedi, d'istinto, senza capire realmente cosa faceva. A quel punto la corrente dell'acqua vinse la resistenza delle sue gambe, facendolo franare. La sua testa diede un colpo molto forte a un piccolo masso. Forte ma non letale.

Qualcosa in lui cambiò: perse la memoria, perché non gli disse nulla il rumore della corrente. Non che non lo sentì, anzi, col mal di testa il rumore venne amplificato. Ma non riconobbe quel suono, così come non riconobbe il frinire dei grilli e il canto degli uccelli.

Una cosa però la capì: improvvisamente la scomparsa della paura per la caduta e il non ricordare di avere legami sentimentali, lo lasciò libero di capire che aveva fame. Non riuscì a ricordare nemmeno come si camminava in postura eretta, e fu costretto a imitare il passo di alcune marmotte. Procedette a quattro zampe.

Osservò più tardi un formichiere che aspirava le sue prede...e provò a fare lo stesso. Lo prese un colpo improvviso di tosse e rigurgitò: le formiche non avevano un buon sapore. Quindi pensò di usare la bocca per altri scopi, (più che pensare agì d'istinto, perché ormai era come un animale) ossia mordere e sbranare.

Le prime furono marmotte, poi gli scoiattoli. In seguito concepì un nuovo tipo di istinto: la caccia nella sua forma più eccitante. Col tempo si era stufato di prede che con la sua intelligenza (fisicamente era pur sempre un essere umano) riusciva a prendere alla sprovvista. Quindi cominciò ad aggredire i lupi, che in qualche modo opponevano una certa resistenza e avevano un minimo grado di astuzia. La carne di lupo non era nulla di speciale, ma la soddisfazione di averla presa con la lotta la rendeva magnifica.

Durante i tre anni e mezzo che trascorse a zonzo in quel vallo, alla fine conobbe un tipo di carne che era leggermente più difficile da cacciare del lupo: la carne umana.

Non sapeva perché, ma quegli esseri bipedi si muovevano solo dove non c'era la vegetazione, lungo sentieri di terra o asfalto. Non era mai facile prenderli alla sprovvista, se non quando si avventuravano nella selva per un motivo o per l'altro. E poi erano estremamente curiosi, tanto da rischiare molto spesso la pelle. Quando poi li si spaventava con ruggiti e ululati, correvano automaticamente nella direzione opposta, per cui bastava semplicemente aggirarli. Se poi non si muovevano su quelle gabbie mobili, era facile saltare loro addosso, tramortirli, e portarli fuori dal sentiero per sbranarli.

La sua prima preda di quella specie la prese in un giorno di dicembre, quando in quella zona faceva molto freddo, ma per difendersi da esso Alessandro (o la bestia in cui si era trasformato) aveva escogitato un buon metodo: accovacciarsi nelle carcasse delle sue prede più corpulente.

Il Vallo fra le MontagneWhere stories live. Discover now