CAPITOLO XXXII - Nella tana del lupo

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«Barbara...Barbara!»
La voce di mio padre.
«Papà!» urlai, e quella parola riecheggiò nello spazio circostante come se mi trovassi su un altopiano, avvolta in un' eco roboante, intenso.
«Promettimi che starai vicino alla mamma, che sarai sempre la mia brava bambina, responsabile e forte».
«Te lo prometto, papà. Te lo prometto. Non andartene, non andare via».
«Non me ne vado. Anche se non mi vedi sarò sempre qui a proteggerti, bambina mia. Cercami e io ci sarò».
«Oh, papà...»

Riaprii gli occhi.
Attorno a me era buio, il caldo era soffocante, avvertivo sulle guance la sensazione umida delle lacrime.
Cercai di fare un profondo respiro, ma l'aria era così viziata che iniziai a tossire.
Mi trovavo in uno spazio piccolo e angusto. Continui scossoni mi facevano battere la testa contro qualcosa di duro, di metallico.

Cosa era successo? Dove mi trovavo?
Improvvisamente ricordai: Faaris, la macchina, quella colluttazione.
Dovevo essere nel bagagliaio della sua auto.
I miei incubi più paurosi stavano, drammaticamente, prendendo forma; quell'epilogo inaspettato, e pure allo stesso tempo così reale, così tangibile, stava avendo luogo: Faaris mi aveva rapita.

La voce di mio padre mi rimbombava ancora nella testa.
«Oh papà» dissi a mezza voce, nell'oscurità «aiutami, ti prego. Ho bisogno di te, voglio tornare a casa».

Da quando era mancato l'avevo sognato molte volte.
La maggior parte di queste eravamo a casa nostra, insieme alla mamma.
Uno dei sogni ricorrenti si svolgeva a cena, lui stava bene, era in perfetta salute, eppure il suo sguardo era triste, ci diceva che presto avrebbe dovuto lasciarci, partire per un lungo viaggio. La mamma iniziava a piangere e io mi svegliavo di colpo, madida di sudore.
Altre volte il sogno aveva contorni più felici. Eravamo al mare, nella casetta in Calabria che affittavamo sempre quando ero piccola, oppure in montagna, sui picchi abruzzesi, dove per la prima volta ero andata su uno slittino, dove mi aveva insegnato a sciare. In quei sogni mio padre guidava la macchina, rideva, era vivo. Io ascoltavo la sua risata, mi nutrivo di essa, forse consapevole del fatto che presto mi sarei svegliata e lui sarebbe scomparso, di nuovo.

Ma la sua voce, per quanto quei sogni talvolta fossero nitidi, reali, quasi come se fossero registrazioni di vita vissuta che si riproponevano nella mia testa con la definizione di un film, spesso mi sfuggiva. Cercavo di ricordarne la tonalità, l'inflessione, mi sembrava a volte così vicina e altre volte così lontana, inafferrabile, un ricordo che non sarebbe mai più tornato nella sua totale chiarezza.

E invece adesso mi era successo, per ben due volte, di udire la sua voce come se lui fosse proprio accanto a me, come se parlasse direttamente al mio cuore. Ne avevo colto con chiarezza il tono, il sapore delle sue parole mi aveva sfiorata come qualcosa di palpabile all'interno della bocca, l'avevo gustata con le mie papille come un prelibato dessert, zuccheroso e buonissimo. La prima volta era accaduto in Oman, quando avevo quasi rischiato di affogare; la seconda pochi minuti prima, quando Faaris mi aveva stordita, probabilmente con del cloroformio.

Avevo sempre avuto una vita abbastanza tranquilla in Italia, tutto ciò che a una ragazza normale capita di vivere nella propria esistenza: scuola, università, uscite con gli amici, fidanzati. Non mi ero mai trovata realmente in pericolo, prima di quei due eventi. E, proprio nel momento in cui lo ero stata davvero, la presenza di mio padre si era fatta viva, tangibile, vicina. Non era forse un segno che lui mi stesse davvero proteggendo, che fosse davvero lì con me?
Che, forse, ci fosse qualcosa dopo la morte?

Erano pensieri che, in qualche modo, mi consolavano. Aver sentito la sua vicinanza, in maniera così intensa, mi aveva infuso una nuova forza, mi aveva irradiata di un'energia vitale che non immaginavo di possedere. Era come se i miei sensi si fossero acuiti, forse per l'istinto di sopravvivenza, forse per il desiderio feroce di vendetta verso chi mi stava privando della libertà.
Forse, ancora, per la promessa fatta a lui che sarei restata accanto a mia madre, che mi sarei presa cura di lei.

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