Capitolo trentaquattro

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«Dove si è rotto il filo di seta che ci univa e scendeva giù giù giù, giù negli abissi e dall'universo? E andrò a cercarlo adesso»

(Un filo di seta negli abissi; Elisa)


Stefano si rigira nel letto. È agitato da quando Santiago ci ha parlato e ci ha detto, così, di punto in bianco, di voler andare da sua mamma. Stefano mi tira le coperte, se le accartoccia addosso. «Ste le coperte no» Mugugno, le tiro dalla mia parte e lui sbuffa. Dev'essere difficile, lasciar partire un figlio da solo e dev'essere ancora più difficile sapere di non poterlo vedere, anche se la sua reazione mi sembra celare qualcosa di più profondo, qualcosa che non riesco a cogliere, qualcosa che non so più leggere. Lui mi ha sempre capita, forse non dal primo momento, ma sicuramente dal secondo. Io no. Io ci ho messo molto più tempo a capirlo, a decriptarlo, a riconoscere i silenzi buoni e quelli cattivi, a sapere quali fili tirare, quali domande fare, perché all'inizio io ero chiusa così tanto da non pensarci neanche a comprendere qualcuno. Neanche lui. Ci ho messo un anno, forse due. Non ricordo il momento esatto in cui l'ho imparato, ma senz'altro ora non ci riusciamo più. Nessuno dei due, anche se entrambi desideriamo tantissimo parlarci, confidarci, ritrovarci, leggerci di nuovo. Tirare i fili giusti. Quanto vorrei sapere che filo tirare ora che si alza e cammina, apre la porta finestra ed esce sulla terrazza spropositatamente grande di questa casa, ma la verità è che so esattamente quale filo dovrei tirare, solo che quel filo si è rotto. Si è spezzato e non so come ricongiungerlo, aggiustarlo, sistemarlo e penso neanche lui abbia idea di come fare. Forse è questa casa. Forse è questa casa troppo grande che ci tiene troppo distanti o forse questo terrazzo di cui non sappiamo cosa farci, oppure i soldi, questa quantità incredibile di denaro che ci ha riempito e scaldato, scombinato e allontanato. Forse è stata Stella. Forse ci ha scombinato lei, una figlia non è una cosa da niente. Puttanate, un sacco di puttanate, stiamo male da prima, quel filo l'ho rotto io, quando ho insistito per un figlio, oppure quando ho dubitato della sua fedeltà. Oppure l'abbiamo rotto tutte e due; metto i piedi giù dal letto. Fa caldo, un caldo allucinante. Guardo il mio comodino: mia mamma mi sorride dalla sua foto, poco più sotto la sveglia segna le 3:30 di notte. Un caldo surreale, quel caldo che ti si appiccica addosso e la notte non riesci neanche a respirare. «Ste» Sta posato contro al vetro del balcone e guarda qualcosa, non riesco a capire cosa. Non riesco a capire nulla. «Non volevo, potevi tenertelo il lenzuolo, ma sai che neanche con duecento gradi so stare senza» Lui mi guarda un po' spaesato, poi sospira.

«Non m'importa del lenzuolo Em» Dice solo, torna a guardare quel qualcosa che io continuo a non vedere, anche se lo cerco, lo cerco disperatamente. «Va' a dormire, è notte fonda e non serve a niente stare qui in piedi»

«Voglio stare qui con te»

«Emma, dai» Sospira, deglutisce. «Non c'è bisogno»

«In realtà credo che tu ne abbia proprio bisogno. Non devi dirmi niente, sto solo qui con te» Gli accarezzo impacciatamente un braccio. «Cosa guardi?» Chiedo.

«Le stelle» Mi risponde, me ne indica una.

«Che stella è?» Domando.

«Boh, che ne so io» Risponde. «È bella. Non m'importa sapere come si chiama» Si zittisce e lo faccio anche io. Ci sono certi silenzi che vanno bene così, che devono rimanere tali, non devono essere riempiti da niente, al massimo dal rumore dei respiri, nient'altro. Stiamo in silenzio, guardiamo quella stella, quella stella lì che chissà come si chiama, magari non ce l'ha nemmeno un nome, magari noi siamo i primi ad accorgerci di lei, oppure è sempre stata là. Magari è la stella che guardano le persone quando si amano e non sanno più come farlo, quando gli si è rotto un filo e non sanno come rimetterlo insieme, oppure è soltanto un ammasso di gas instabile e non ha nulla di speciale.

I draghi si possono sconfiggereDove le storie prendono vita. Scoprilo ora