25. Casa

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Maya

Archie mi stava guardando con espressione attenta. Nella sua mano, una tazza rigorosamente targata Harvard, contenente un tè caldo e fumante. Nell'altra, invece, reggeva il telefono a mezz'aria in procinto di scrivere un messaggio, ma troppo occupato a guardarmi per finire di scriverlo. Sospirai e feci una leggera giravolta su me stessa, facendo in modo che la gonna bordeaux roteasse con me. Scosse la testa, risoluto, per poi posare la tazza e muovere l'indice in segno di negazione. Mordicchiai il labbro, sistemando lo scollo a barca del vestito e cercando di farglielo piacere, ma era così testardo che non si arrendeva alle mie suppliche, continuando a fare "no" con la testa.

«Tesoro, non ci siamo. Non. Ci. Siamo.» disse, sillabando la parola alla perfezione.

Mi grattai il capo, perplessa, lasciando cadere il vestito sul pavimento e rimanendo in intimo. «Perché? È il quarto che provo e a te sembra non andare bene niente!» mi lamentai, appoggiando la schiena nuda sull'armadio gelato.

Alzò un sopracciglio, sospirando. «Amore mio, ti ricordi dove stai andando?» chiese serio.

Annuii, storcendo il labbro. «A cena da Jamie.» borbottai.

Sorrise. «Brava. E tu sai chi è il padre di Jamie, vero?» mi chiese, appoggiando la schiena sulla testiera del letto e osservandomi con un cipiglio.

Storsi il labbro, arricciando il naso e alzando gli occhi al cielo. «Adam Reyes, il più importante e ricco imprenditore d'America.» risposi scocciata.

Schioccò le dita, balzando in piedi. «Esatto! Non vuoi mica presentarti con un abito di scarsa qualità, amore mio. Devi avere classe.» replicò soddisfatto.

Lo guardai male, sbuffando. «Non so se ti è chiaro, Arch, che mio padre è un comunissimo operaio. Non credi sia un tantino difficile trovare uno Chanel o un Ralph Lauren dentro il mio armadio?» domandai con una leggera ironia.

Annuì, arricciando il naso. «Ovviamente no. Ma con quei quattro abiti eri oscena, amore. Davvero oscena. Ci vuole qualcosa di più... particolare. Perché non ci facciamo un giro per i negozi?» chiese entusiasta.

Feci una smorfia, sbuffando. «Non ho un soldo, Archie. Neanche uno. Come ovvieremo al problema?»

Sorrise, indicandosi da solo con un gesto pressoché teatrale. «Ci sono io, baby. Beh, non posso comprarti uno Chanel, essendo figlio di un operaio come te. Ma sono sicuro che troveremo qualcosa!» esclamò con non poca felicità.

Ruotai gli occhi, indossando di nuovo gli abiti che avevo messo per la scuola. «Perché ti ho scelto come migliore amico?» sussurrai contrariata.

Rise, indossando la felpa e chiudendo la cerniera. «Perché mi ami, è ovvio. Ora, non per essere scortese, ma potremmo prendere la macchina di tuo padre?» mi chiese curioso.

«Io non guido, Arch. Proprio no.» risposi determinata.

Fece una smorfia, annuendo. «Infatti, io non voglio morire. Lo faccio io.» alzò le spalle, acchiappando le chiavi da sopra il mobile nel corridoio. «A lavoro!» urlò, correndo verso la macchina. Scossi la testa e risi, seguendolo con aria divertita.

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